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Vaccino anti-Covid, “istruzioni”
per i malati di sclerosi multipla

Mercoledì 21 settembre 2022 circa 6 minuti di lettura In deutscher Sprache

di Elisa Buson

Chiara Zecca, co-responsabile insieme a Claudio Gobbi del Centro Sclerosi Multipla, presso il Neurocentro della Svizzera italiana
Chiara Zecca, co-responsabile insieme a Claudio Gobbi del Centro Sclerosi Multipla, presso il Neurocentro della Svizzera italiana

L’infezione da Covid-19 è una preoccupazione per tutti, ma lo è soprattutto per chi convive con una malattia autoimmune come la sclerosi multipla e si ritrova a dover assumere farmaci che possono interferire con il funzionamento del sistema immunitario. Impossibile non essere assaliti da dubbi e paure. Rischio di contagiarmi più facilmente? Posso sviluppare una forma di Covid più grave? E la vaccinazione sarà efficace lo stesso? Queste le domande più frequenti dei pazienti a cui stanno provando a dare risposta i ricercatori del Neurocentro della Svizzera Italiana (Ente Ospedaliero Cantonale), con uno studio avviato nella primavera del 2021 e tuttora in corso.

La ricerca rappresenta infatti un pilastro fondamentale dell’istituto e in particolare del suo Centro Sclerosi Multipla (CSM), fondato nel 2009 per migliorare la conoscenza e la cura di questa malattia che in Ticino colpisce centinaia di persone, spesso nel pieno della loro età lavorativa. Presso il Centro di Lugano i pazienti possono contare su un team multidisciplinare guidato da due neurologi specialisti in sclerosi multipla, Claudio Gobbi e Chiara Zecca, che coordinano due capoclinica, due medici assistenti, un neuroradiologo, una neuropsicologa, una coordinatrice scientifica e quattro infermiere esperte in sclerosi multipla. Un gruppo affiatato che si è dimostrato pronto a reagire anche di fronte allo tsunami della pandemia, quando l’avvento del virus SARS-CoV-2 (al tempo del tutto sconosciuto) ha aperto nuovi interrogativi.

«Volevamo capire innanzitutto se i pazienti con sclerosi multipla avessero dei fattori di rischio aggiuntivi legati alle terapie che ricevono, al di là dei classici fattori predisponenti al Covid che sono stati osservati nella popolazione generale, ovvero l’età avanzata, il sesso maschile, l’obesità e la presenza di altre comorbidità», spiega Chiara Zecca, neurologa del Neurocentro, docente all’Università della Svizzera Italiana (USI) e co-responsabile, insieme al professor Claudio Gobbi, del Centro Sclerosi Multipla.

Nello studio sono stati arruolati 120 pazienti, per due terzi donne (il sesso femminile è il più colpito dalla sclerosi multipla), con un’età media di circa 55 anni. «Non si tratta di un campione particolarmente numeroso, ma è comunque importante se rapportato al numero di abitanti del Ticino», sottolinea la specialista. I partecipanti sono stati divisi in cinque gruppi in base alle terapie assunte: nel primo gruppo sono finiti tutti i pazienti in cura con gli anticorpi anti-CD20, farmaci biologici come rituximab, ocrelizumab e ofatumumab che causano una diminuzione dei linfociti B; nel secondo gruppo sono stati inseriti i pazienti che usano i modulatori del recettore della sfingosina 1-fosfato, piccole molecole come fingolimod e ozanimod che bloccano i linfociti nei linfonodi impedendo che attacchino il sistema nervoso; il terzo e il quarto gruppo hanno riunito invece i pazienti trattati con i farmaci orali teriflunomide e cladribina; infine il quinto gruppo di controllo è stato formato con i pazienti che non assumevano terapie.

«Ciascun partecipante è stato sottoposto a un prelievo di sangue prima e dopo le due dosi di vaccino anti-Covid a mRNA, prevalentemente quello di Pfizer», spiega la dottoressa Zecca. «I risultati, che abbiamo pubblicato sulla rivista Jama Neurology, dimostrano che a distanza di un mese dalla seconda dose i pazienti trattati con gli anticorpi anti-CD20 e i modulatori del recettore della sfingosina 1-fosfato hanno una minore quantità di anticorpi contro il Covid rispetto a tutti gli altri gruppi di confronto. Alla luce di questo dato abbiamo deciso di portare avanti lo studio, per dosare nuovamente gli anticorpi anti-Covid a 6-9 mesi di distanza: i dati raccolti dimostrano che più ci si allontana dalla vaccinazione più cala la concentrazione degli anticorpi. La loro riduzione è progressiva e lineare, proprio come accade nella popolazione generale: questo però significa che i pazienti che sviluppano dall’inizio pochi anticorpi anti-Covid come conseguenza delle terapie della sclerosi multipla, perdono la loro protezione più in fretta degli altri».

Questi  risultati, in via di pubblicazione sulla rivista Neurology Neuroimmunology & Neuroinflammation, sono stati arricchiti con la scoperta che, nei pazienti trattati con farmaci anti-CD20, il fattore che più condiziona la quantità di anticorpi è il numero di linfociti B presenti al momento della vaccinazione: sono proprio queste cellule del sistema immunitario a produrre gli anticorpi e dunque averne di più permette di sviluppare una risposta anticorpale più robusta al vaccino. «Questa scoperta – aggiunge la neurologa – potrebbe avere implicazioni nella pratica clinica: potremmo infatti valutare caso per caso se sia opportuno distanziare maggiormente le terapie dalla vaccinazione, per dare tempo al paziente di ricostituire almeno in parte i linfociti B».

Gli anticorpi sono fondamentali nella difesa contro Covid-19, ma non sono le uniche armi a disposizione del nostro sistema immunitario. Per questo i ricercatori del Neurocentro, in collaborazione con il gruppo della professoressa Federica Sallusto dell’Istituto di Ricerca in Biomedicina (IRB), hanno pensato di testare in laboratorio anche la risposta cellulare mediata dai linfociti B, cioè la loro capacità di specializzarsi nella difesa contro il Covid comunicando e attivando contro il virus le altre cellule del sistema immunitario. «Abbiamo osservato che le cellule B funzionano meno nei pazienti trattati con gli anticorpi anti-CD20 e i modulatori del recettore della sfingosina 1-fosfato», racconta la specialista. «Questo si traduce in una minore protezione dall’infezione, anche se il numero limitato di pazienti presi in esame non ha permesso di apprezzare una variazione significativa del rischio di contagio».

Nuove utili indicazioni potranno arrivare dal proseguimento dello studio, che punta ora ad ampliarsi valutando anche la risposta dei linfociti T e non solo. «Sappiamo che i pazienti trattati con anticorpi anti-CD20 hanno una scarsa risposta delle cellule B ma una buona risposta delle cellule T, mentre chi usa i modulatori del recettore della sfingosina 1-fosfato ha problemi anche nella risposta delle cellule T, ma non per questo sviluppa necessariamente delle forme gravi di Covid: questo – conclude la neurologa – dimostra che probabilmente si attivano ulteriori componenti del sistema immunitario che dovranno essere in futuro caratterizzate».