Lugano

La forte ascesa degli "organoidi", costruiti in laboratorio per cure
oncologiche sempre più mirate

Lunedì 19 giugno 2023 circa 8 minuti di lettura In deutscher Sprache
Cellule nervose disegnate da un sistema di intelligenza artificiale (©  Shutterstock)
Cellule nervose disegnate da un sistema di intelligenza artificiale (© Shutterstock)

Fra gli ospiti d’eccezione del congresso sui linfomi, il professor Hans Clevers, uno dei massimi esperti di organoidi, responsabile della ricerca Roche. Ha partecipato a un Forum organizzato da IBSA Foundation
di Elisa Buson

Personalizzare le terapie anti-cancro cucendole “su misura” in base al profilo genetico e molecolare di ogni paziente, in modo da ottenere la massima efficacia con meno effetti collaterali: è questa l’ultima frontiera nella lotta ai tumori. Un tema caldo della ricerca oncologica a cui la  IBSA Foundation per la ricerca scientifica ha deciso di dedicare un Forum speciale in occasione della 17esima edizione della Conferenza Internazionale sui Linfomi Maligni (ICML), che dal 13 al 17 giugno ha riunito a Lugano circa 4.000 specialisti provenienti da tutto il mondo, grazie all’attività organizzativa del professor Franco Cavalli e della Fondazione per l’Istituto Oncologico di Ricerca (IOR) di Bellinzona, in collaborazione con l’Associazione Americana per la Ricerca sul Cancro (AACR) e la Scuola Europea di Oncologia (ESO).
«Se fino a qualche anno fa i tumori che traggono origine dallo stesso tipo di cellule erano considerati e trattati come se fossero la stessa malattia – spiegano gli esperti di IBSA Foundation – oggi, grazie al lavoro interdisciplinare dei medici e a tecniche che permettono una risoluzione sempre più dettagliata, sappiamo che il tumore è invece una malattia altamente dinamica con un elevato grado di eterogeneità, non solo a livello intra-tumorale ma anche tra paziente e paziente». 

Il Forum della IBSA Foundation è stato dedicato - il 16 giugno,  nell’Auditorium dell’Università della Svizzera italiana - ai risultati più recenti degli studi che sono stati avviati per comprendere meglio queste differenze a livello molecolare e sviluppare così terapie sempre più mirate ed efficaci. Moderatore dell’incontro, Andrea Alimonti, docente all’USI e al Politecnico di Zurigo e direttore designato (dal 1° gennaio 2024) dell’Istituto Oncologico di Ricerca. Hanno partecipato al Forum Arianna Baggiolini, giovane group leader dello IOR, René Bernards, dell’Istituto dei tumori dei Paesi Bassi, e Hans Clevers, head of Pharma Research and Early Development presso Roche.  

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Noi di Ticino Scienza abbiamo colto l’occasione per intervistare proprio Clevers, che poche settimane fa ha annunciato la nascita a Basilea di un nuovo istituto per lo studio della biologia umana basato su una tecnologia estremamente innovativa: gli organoidi, mini-organi umani che vengono coltivati in provetta a partire dalle cellule dello stesso paziente, in modo da riprodurne fedelmente i meccanismi di malattia e la risposta ai farmaci. Uno strumento dalle enormi potenzialità in oncologia e non solo.

Professor Clevers, con le sue ricerche all’Università di Utrecht è stato tra i pionieri nel campo degli organoidi e nel 2009 è stato il primo al mondo a produrre un “intestinoide”. Come è iniziata questa sua avventura?

«Il nostro laboratorio - risponde Clevers - è stato tra i primi che hanno sviluppato la tecnologia degli organoidi: lo abbiamo fatto partendo da cellule staminali adulte che si trovano normalmente nei tessuti del corpo. Ogni organo ha il suo set specifico di staminali che ne garantiscono il corretto funzionamento nel corso della vita, rimpiazzando le cellule danneggiate. Le staminali che abbiamo scoperto una ventina di anni fa sono quelle dell’intestino, le più attive del corpo: basti pensare che la mucosa intestinale si rinnova ogni due settimane nell’uomo e ogni cinque giorni nel topo. Abbiamo studiato queste cellule scoprendo tante caratteristiche che al tempo erano del tutto inaspettate. Ad esempio, abbiamo capito che si dividono continuamente, tutti i giorni: ciò significa che nel topo, che vive in media tre anni, si dividono circa mille volte. Era qualcosa di veramente inatteso, perché si pensava che le staminali si dividessero raramente per non accumulare troppi errori nella replicazione del DNA. Abbiamo quindi provato a coltivarle in laboratorio per ricreare lo stesso ambiente presente nell’intestino. Queste cellule non producono solo staminali, ma una dozzina di linee cellulari della mucosa intestinale necessarie per digerire e assorbire i nutrienti. L’altra sorpresa è stata che questi organoidi continuano a crescere: ogni settimana vanno suddivisi in modo che non superino il millimetro di grandezza, ma nel giro di un mese se ne possono produrre molti a partire da una singola staminale e si può andare avanti così per anni».

È vero che avete usato gli organoidi per studiare il Covid-19? Cosa vi hanno permesso di scoprire?

«Sì, è vero. Lo abbiamo fatto nelle prime fasi della pandemia, quando ancora si conosceva pochissimo del virus e bisognava capire quali organi venissero infettati. Era evidente che i polmoni erano un target, ma non l’unico. Grazie a questi mini-organi umani abbiamo potuto osservare in laboratorio quali di essi permettono al virus di propagarsi. È emerso che l’intestino è un organo fantastico per la replicazione virale. Questa scoperta ha permesso anche di sviluppare nuovi metodi per monitorare la diffusione del contagio, non testando le singole persone ma esaminando le acque di scarico delle città. Grazie agli organoidi umani abbiamo anche dimostrato che l’idrossiclorochina, inizialmente proposta come un possibile trattamento per Covid-19, non aveva in realtà alcun effetto, proprio come poi si è visto anche nei pazienti».

Ad oggi quali organi e quali malattie è possibile replicare in laboratorio con gli organoidi? 

«Oserei dire che ormai possiamo riprodurre quasi tutti gli organi umani e molte malattie, da quelle genetiche come la fibrosi cistica a quelle del cervello. C’è poi l’importante capitolo delle malattie infettive: mi riferisco non solo a Covid-19, ma anche al norovirus (che non era mai stato coltivato in laboratorio e invece cresce molto bene negli organoidi) e al virus respiratorio sinciziale. Gli organoidi ci hanno aiutato anche a studiare patogeni emergenti come il virus Zika: ci hanno permesso di capire che il virus acquisito durante la gravidanza può causare la nascita di bambini microcefali, mentre non provoca gli stessi effetti nel cervello adulto. Un’altra importante area di ricerca è quella sui tumori: gli organoidi ci permettono di coltivare in laboratorio le cellule sane del paziente a fianco di quelle malate, per scoprire quello che non va». 

In che modo gli organoidi possono aiutare la messa a punto di trattamenti personalizzati contro il cancro? 

«Gli organoidi sono come l’avatar del paziente: riflettono le caratteristiche biologiche che lo rendono unico, sia nell’evoluzione della malattia che nella risposta ai trattamenti. Esponendoli ai farmaci che si intendono utilizzare, è possibile capire in anticipo se il paziente risponderà o meno a un trattamento». 

Quali sfide si prospettano nella ricerca sugli organoidi?

«Credo che siano stati fatti enormi progressi da quando tutto è iniziato una dozzina di anni fa, ma gli organoidi sono ancora una versione molto semplificata dei veri organi umani. Hanno le cellule dell’organo specifico che si vuole riprodurre, ma non hanno ad esempio i vasi sanguigni, le cellule del sistema immunitario o le cellule di supporto che formano lo stroma. La sfida ora è rendere gli organoidi più complessi, per vedere ad esempio come le cellule immunitarie dello stesso paziente combattono le infezioni. Ci si sta lavorando, perché in questo genere di sistemi ci sono molti parametri da considerare: c’è l’organoide, ma anche le cellule immunitarie, i vasi sanguigni, le fibre nervose, il microbioma, il virus. Quindi bisogna dimostrare che quello che si sta costruendo in laboratorio riflette davvero la biologia dell’organo che si intende studiare. Detto questo, il vero punto di forza di questo campo di ricerca è che per la prima volta siamo in grado di studiare la biologia umana in provetta: prima dovevamo ricorrere a modelli animali o a linee cellulari, ovvero cellule tumorali di individui che sono state coltivate per molti anni e spesso non rispecchiano più fedelmente il tumore originale».

Con Roche avete da poco lanciato il nuovo Institute of Human Biology, dove lavoreranno fianco a fianco circa 250 tra scienziati e bioingegneri provenienti dal mondo accademico e dall’industria farmaceutica. Con quali obiettivi?

«L’ho creato perché penso che la tecnologia degli organoidi, sviluppata essenzialmente in ambito accademico, sia ormai pronta per essere applicata allo sviluppo di farmaci. Potrebbe essere complementare alle altre piattaforme sperimentali o addirittura rimpiazzarle per definire i meccanismi di malattia, validare nuovi target farmacologici, fare lo screening di nuove molecole e studiarne sicurezza e tossicità. L’obiettivo di questo nuovo istituto è creare un ponte tra università e industria: non ci occuperemo direttamente dello sviluppo di farmaci, cosa che continueremo a fare in Roche, ma produrremo tecnologie e sistemi moderni, che saranno trasferiti in Roche, oltre a pubblicazioni e articoli scientifici. Vogliamo che la tecnologia degli organoidi diventi una realtà. Ho sempre creduto che una delle sue principali applicazioni sarebbe stata nello sviluppo di farmaci e questa è stata una delle ragioni che personalmente mi hanno spinto alcuni anni fa a trasferirmi a Basilea per entrare in Roche».

Quale sogno spera di realizzare grazie agli organoidi?

«Mi piacerebbe arrivare ad avere un farmaco sviluppato totalmente o almeno in gran parte su organoidi umani. Ci vorrà ancora del tempo, ma spero di vederlo».