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Contro la “penombra” dell’ictus velocità, tecnica (ed empatia)

Sabato 14 gennaio 2023 circa 8 minuti di lettura In deutscher Sprache

di Agnese Codignola

Carlo Cereda, co-responsabile dello Stroke Center dell’Ente Ospedaliero Cantonale  (foto di Chiara Micci / Garbani)
Carlo Cereda, co-responsabile dello Stroke Center dell’Ente Ospedaliero Cantonale (foto di Chiara Micci / Garbani)

Ogni anno in Ticino 800 persone vengono colpite da un ictus, una malattia che arriva all’improvviso, e può lasciare conseguenze gravi, talvolta mortali. Ma che, sempre più spesso, può essere contrastata in modo estremamente efficace, fino ad annullarne gli effetti. A patto di riconoscere tempestivamente i sintomi, e recarsi prima possibile presso un centro specializzato, cioè presso uno Stroke Center. Nei centri ad alta specializzazione si riesce infatti a formulare una diagnosi precisa, che fornisce un quadro dettagliato delle zone cerebrali coinvolte, e a fornire cure personalizzate, che consentono di limitare i danni cerebrali e ridurre il rischio di disabilità causate dal black out indotto dall’ictus.

Rispetto a qualche anno fa, infatti, la medicina ha fatto grandi passi in avanti, soprattutto su due fronti: quello della diagnostica e quello delle terapie per l’ictus ischemico, cioè per l’ictus provocato dalla chiusura di un vaso cerebrale a causa di un trombo (embolo), che rappresenta la maggioranza dei casi.  

Per capire meglio che cosa significhi tutto ciò per una persona colpita da ictus, Ticino Scienza ha chiesto a Carlo Cereda, svizzero di nascita e di formazione, ma con un’esperienza, tra le altre, allo Stroke Center dell’Università di Stanford (California) e, da qualche anno, co-responsabile dello Stroke Center dell’Ente Ospedaliero Cantonale (EOC), all’ospedale Regionale di Lugano, riferimento per tutto il cantone. Spiega Cereda: «Quando il cervello è colpito da ictus ischemico, una certa zona del cervello perde funzionalità, e questo è associato a sintomi specifici quali i disturbi della parola o del campo visivo, la paralisi di una parte del corpo, che variano a seconda della zona colpita. Nelle prime ore, l’area interessata, chiamata penombra (a indicare l’aspetto che assume nelle indagini di imaging), è ancora potenzialmente salvabile, se si può ripristinare la circolazione cerebrale della zona toccata, cioè dare il via a una riperfusione, e questo, a sua volta, limita i danni e offre ai pazienti maggiori possibilità di recupero. Per questo, tanto più riusciamo ad avere una visione precisa della situazione - grazie a un’integrazione dei dati clinici con le informazioni fornite dalla diagnostica per immagini, che negli ultimi anni è diventata sempre più sofisticata - tanto più possiamo intervenire tempestivamente, e in modo più efficace. E questo perché la neurologia vascolare si è trasformata, negli ultimi anni, passando da disciplina osservazionale e per certi versi passiva, a disciplina molto attiva, e con possibilità terapeutiche rilevanti per il destino dei pazienti». 

Negli ultimi anni Cereda e i suoi collaboratori hanno contribuito a studiare il ruolo della "penombra" attraverso le neuroimmagini avanzate (imaging di perfusione, in termine tecnico), come strumento per identificare pazienti trattabili con le terapie di riperfusione al di là della finestra temporale terapeutica standard. E ciò significa che, proprio grazie - anche - all’imaging di perfusione, si sono aperte nuove prospettive di cura anche per pazienti che, fino a poco tempo fa, erano considerati non trattabili, perché, ad esempio l’ictus era insorto nel sonno o a un orario non determinato o, ancora, molte ore prima. L’accresciuta capacità diagnostica, insieme alle terapie di ultima generazione - che riescono a riaprire i vasi occlusi in modo straordinariamente efficiente (con la cosiddetta terapia endovascolare) - hanno allungato molto la finestra di tempo entro la quale si può intervenire, passata da 3-6 ore a 24 ore e talvolta anche oltre: una differenza enorme, dal punto di vista della possibilità di contrastare il danno, sottolinea Cereda. 

Recentemente il neurologo, con il suo gruppo, ha sviluppato interesse nelle analisi di perfusione cerebrale in zone del cervello meno studiate e più raramente coinvolte, come la circolazione posteriore (che comprende le zone vertebro-basilari, con le arterie che passano posteriormente rispetto alle arterie carotidi). E, in questo ambito, ha pubblicato nel 2022, sugli Annals of Neurology, uno studio che ha coinvolto oltre cento pazienti, dal quale emerge chiaramente come le differenti caratteristiche di perfusione (o di mancata perfusione) siano fortemente predittive dell’esito clinico delle procedure endovascolari che si possono attuare per questo tipo di ictus, potenzialmente devastante. Il lavoro è oggetto anche di un podcast voluto dalla rivista, che illustra bene le potenzialità di queste indagini. Inoltre, a breve dovrebbe iniziare uno studio multicentrico, coordinato da Cereda e finalizzato all’approfondimento di tale argomento. 

Ma c’è anche un altro ambito, altrettanto importante, nel quale l’imaging, unito alla ricerca di biomarcatori specifici, potrebbe permettere di modificare profondamente l’approccio stesso alla malattia: quello degli ictus ischemici con sintomi transitori (che passano rapidamente), chiamato TIA (da Transient Ischemic Attack). I TIA sono piccole ischemie cerebrali che possono non essere riconosciute come tali, e che non sempre lasciano tracce, ma possono essere indicative di un aumento del rischio di andare incontro a un ictus di proporzioni maggiori. Spiega ancora Cereda: «Abbiamo cercato di capire se vi fossero, nel sangue, segnali specifici, un po’ come accade con l’infarto e gli enzimi cardiaci (troponine), perché non tutti i TIA si vedono con le tecniche di neuroimaging. Grazie alla collaborazione con Lucio Barile (responsabile del Laboratorio di Theranostica Cardiovascolare del Cardiocentro), siamo riusciti a individuare un profilo specifico, una sorta di firma, nelle cosiddette “vescicole extracellulari”, piccole sferette che si staccano dalle cellule e la cui quantità e qualità – abbiamo scoperto - cambiano molto tra persone sane o persone colpite da eventi che non sono ischemie cerebrali, e pazienti che hanno avuto un TIA . Lo studio, pubblicato sulla rivista forse più importante del settore, Stroke, descrive una quarantina di pazienti (e altrettanti controlli). «E’ un primo passo nella buona direzione, ma il cammino è ancora lungo - commenta Cereda. - Per confermare quest’osservazione promettente abbiamo previsto uno studio su scala più ampia e multicentrico, per poter lavorare su dati provenienti da un campione più grande, passaggio indispensabile prima di poter proporre questo approccio diagnostico integrato nella routine clinica». 

I risultati già pubblicati, comunque, sono stati accolti con grande interesse dalla comunità scientifica, come testimonia un editoriale dal titolo: “Una nuova luce all’orizzonte”. E non è certo un caso: disporre di un dosaggio relativamente semplice, da effettuare immediatamente con un prelievo, in caso di sospetta ischemia cerebrale, potrebbe avere ripercussioni molto significative nella presa a carico delle sindromi ischemiche cerebrovascolari. Per Cereda, poi, lo studio ha anche un ulteriore significato, perché dimostra l’efficacia di una collaborazione traslazionale, in cui il ricercatore clinico si confronta con il ricercatore di laboratorio per giungere a formulare una domanda cui provare a rispondere con una strategia comune, unendo le energie. «Il paziente è sempre al centro di tutta la nostra attività - dice Cereda - ma per assisterlo al meglio è fondamentale non smettere mai di fare ricerca orientata al bene del paziente stesso, non limitarsi all’esistente, e cercare sempre di migliorare, avvalendosi di tutte le collaborazioni possibili: e in Ticino ne sono possibili numerose, e di grande qualità». Per questi stessi motivi, Cereda ha accolto con entusiasmo fino dal primo anno gli studenti del master della neonata facoltà di scienze biomediche dell’Università della Svizzera italiana (USI), perché, afferma, «le opportunità di stimolo intellettuale che ci offrono gli studenti che sognano di diventare medici sono molto preziose, e ci aiutano a mantenere viva la curiosità scientifica, a metterci in discussione e a promuovere dinamicità e progressi continui».

Dal punto di vista del paziente, poi, i passi in avanti si trasformano in un’assistenza che va ben oltre quella del momento acuto dell’evento. Chiarisce ancora il neurologo: «Oltre alle terapie in fase acuta, che sono somministrate grazie alla collaborazione dei colleghi neuro-radiologi e al supporto del team del Pronto Soccorso (Dipartimento di Area Critica), ciò che fa la differenza nel grado di recupero ottenuto è anche tutta la realtà che avvolge il paziente, a cominciare dalla presa a carico medico-infermieristica specializzata e dedicata, dalle varie forme di neuro-riabilitazione precoce (per esempio motoria, logopedistica, neuropsicologica), fino agli aspetti nutrizionali, all’assistenza sociale quando necessaria, e ad altri elementi che consentono di realizzare una presa a carico globale e il più completa possibile. Il team è quindi sempre multidisciplinare, prosegue l’esperto, e questo implica uno sforzo organizzativo non da poco, a sua volta in costante ricerca di ottimizzazione. «Lo Stroke Center misura regolarmente le sue performances - continua Cereda - e queste, attraverso lo Swiss Stroke Registry, sono analizzate in un concetto di benchmarking (analisi comparativa) nazionale, in modo da verificare se ci sono aspetti da migliorare o altri nei quali le soluzioni ideate possono essere di aiuto ad altri centri. Il tutto per promuovere quanto possibile una medicina basata sulle prove di efficacia (evidence based medicine), e tradurle, per il paziente in un offerta di migliori cure mediche possibili (Best Medical Care). 

I progressi tecnologici e scientifici sono importantissimi, ma non bastano. La forza di uno Stroke Center è soprattutto data dall’energia fornita dalle persone, dal “fattore umano”. «Lo spirito di gruppo - conclude Cereda - è fondamentale: il paziente con ictus lo percepisce e ne beneficia. E questo lo aiuta a ritrovare, quanto possibile, l’energia per lottare, con un obbiettivo chiaro: tornare a essere il più possibile quello di prima, non fermarsi, nella consapevolezza di non essere solo nel suo percorso».