IMMUNOLOGIA

Vita da ricercatori: bella, esaltante, un po’ crudele...

Domenica 22 settembre 2019 circa 6 minuti di lettura In deutscher Sprache

La laurea, poi altri tre anni per il dottorato, infine un periodo precario da post-doc. Ma, a 40 anni, molti sono costretti a cambiare lavoro. Intervista a Maurizio Molinari, direttore di laboratorio all’IRB
di Paolo Rossi Castelli

Com’è davvero la vita dei ricercatori? In quali ambienti si muovono, con quali orari (molto diversi da quelli “normali”)?  E le dinamiche aziendali, la lotta per la carriera? Si parla spesso della Ricerca, e si affidano tante speranze, nell’immaginario collettivo, all’attività di chi passa le sue giornate in un laboratorio, a caccia dei meccanismi biologici che provocano le malattie, e dei possibili rimedi. Ma quasi nessuno - al di là degli esperti - saprebbe raccontare quali sono gli orizzonti di quel mondo. Abbiamo provato a chiederlo a Maurizio Molinari, direttore del laboratorio “Controllo della produzione proteica” all’Istituto di Ricerca in Biomedicina (IRB) di Bellinzona, e scienziato di grande esperienza e valore.

«C’è chi lavora dalle 9 alle 17, proprio come in un ufficio, e fa i regolari giorni di vacanza - risponde Molinari nel suo ufficio ingombro di libri e riviste, ma abbellito anche dai disegni dei suoi figli. - L’orario previsto sarebbe di 42 ore alla settimana... Ma questa non può essere un’attività impiegatizia, per tanti motivi, e qui all’IRB ci sono persone che lavorano molto oltre (certo, senza arrivare agli eccessi degli Stati Uniti, dove a volte i ricercatori dormono addirittura in laboratorio!). Da noi è frequente che si venga la domenica per preparare gli esperimenti del lunedì. D’altronde, se fai ricerca non puoi avere orari fissi, e devi essere pronto a sacrificare tempo e vacanze».

Qual è una parola che può riassumere bene l’attività dei ricercatori?

«Competitività, senza dubbio. La concorrenza è enorme, a livello internazionale, e un ricercatore ha la possibilità di “produrre” (e di pubblicare sulle riviste scientifiche più prestigiose) solo se arriva primo. In alcuni casi (non all’IRB, per fortuna) la competizione si scatena non solo fra un laboratorio e l’altro, ma addirittura all’interno dello stesso laboratorio. In pratica, ci sono direttori che affidano lo stesso progetto a due ricercatori diversi, per ottenere i risultati migliori nel minor tempo possibile. Alla fine, se lo studio verrà pubblicato, lo firmeranno tutti e due... Ma è chiaro che questo trasforma il lavoro in un’attività particolarmente stressante».

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Volete diventare ricchi e famosi...

«No, l’attività del ricercatore non è assolutamente “abbondante”, dal punto di vista del denaro, come quella (almeno potenzialmente) dei medici. Chi si avvia verso il lavoro nei laboratori non ha una particolare aspirazione al denaro. È quasi sempre dotato, invece, di una grandissima curiosità e del desiderio di capire le cose, fantasia, voglia di percorrere strade nuove, capacità di pensare in modo diverso.“Thinking outside the box”, come dicono i miei amici americani... Solo nel caso di brevetti si può guadagnare davvero. Ma sono situazioni molto limitate».

Lei come ha deciso di dedicarsi alla Ricerca?

«Quando ero un ragazzo, in verità, volevo fare il pilota di Formula 1: abitavo vicino a Clay Regazzoni e mi aveva “contagiato”... Poi, durante il liceo, sono rimasto molto colpito dalla serie televisiva “Quincy”, che raccontava le vicende di un anatomopatologo, e naturalmente anch’io ho desiderato fare quel lavoro. Ma due miei amici mi hanno poi condotto verso la biochimica. E da lì è nata, gradualmente, la mia passione per la Ricerca. Questo lavoro mi piace moltissimo e mi coinvolge tanto... Ma quando ho iniziato, lo ammetto, non avevo la spinta a “salvare il mondo” (come d’altronde non la possiedono - mi sembra - nemmeno molti ragazzi di oggi). Mi sta venendo adesso!»

Qual è il percorso tipico di un giovane ricercatore?

«Dopo la laurea, è necessario conseguire il dottorato di ricerca (all’IRB abbiamo numerosi dottorandi), che normalmente dura 3 anni. Poi comincia quello che viene chiamato post-doc, cioè un periodo (in genere, dai 2 ai 7 anni) presso uno o più laboratori, possibilmente in almeno due Paesi diversi. Il dottorando riceve un salario, mentre il post-doc, pur ottenendo a volte un compenso fisso, deve “combattere” per raccogliere finanziamenti (i cosiddetti grant) dal Fondo nazionale svizzero per la ricerca scientifica o da altri enti, non solo svizzeri. Naturalmente, è fondamentale riuscire a pubblicare i risultati delle proprie ricerche su riviste scientifiche importanti, come dicevo. Altrimenti, i finanziamenti non arrivano, o arrivano con il contagocce, e la possibilità per il post-doc di trovare laboratori disposti ad accoglierlo si riduce. Tutto diventa più facile, ovviamente, se si ha la capacità, o, a volte, la fortuna, di entrare in gruppi diretti da scienziati di alto prestigio (e bravi anche a insegnare). In ogni caso, la meta ultima, per un post-doc, è quella di avere un proprio laboratorio e di coordinare altre persone: insomma, di diventare direttore di laboratorio, appunto. Non esistono tabelle di marcia precise, ma l’esperienza insegna che sarebbe importante raggiungere questo risultato prima dei 35 anni. Se non avviene (e non è facile che avvenga, perché i posti da direttore di laboratorio sono limitati, e comunque enormemente inferiori a quelli dei dottorandi e dei post-doc), molti aspiranti ricercatori verso i 40 anni decidono di abbandonare questa carriera (non si può fare il post-doc a vita...) e si rivolgono ad altro: per esempio, trovano un impiego come tecnici di laboratorio all’università, o vanno a lavorare per le case farmaceutiche. È un destino amaro... Dover abbandonare tutto, dopo molti anni di studi e fatica».

E se, invece, riescono a diventare direttori di laboratorio, come cambia il loro destino?

«Il direttore di laboratorio deve avere “costruito”, nel suo lungo periodo di formazione, un curriculum che gli permetta poi di avere una credibilità nazionale e internazionale, e di raccogliere fondi per il suo staff. Pochi lo sanno, ma gran parte del lavoro di un direttore è ottenere soldi per pagare i dipendenti! Poi, certo, dobbiamo anche trovare idee da proporre ai collaboratori, e dobbiamo scrivere, divulgare».

Ma torniamo ai dottorandi e ai post-doc: “legano” fra loro, in un ambiente non facile come quello dei laboratori?

«Sì, certo, soprattutto in un luogo come l’IRB, che si trova in una città senza un gran numero di studenti (a differenza di Zurigo, per esempio). Una certa forma di isolamento, come quella che viviamo, e anche la presenza di tante nazionalità diverse all’interno degli istituti di ricerca, porta a creare gruppi con cui uscire, o andare in vacanza. Spesso nascono amori e matrimoni. Anch’io mia moglie l’ho conosciuta in laboratorio...»

Come immagina il futuro della Ricerca?

«Vedo la Ricerca come un insieme atomizzato, polverizzato, di progressi. È rarissimo che ci sia la scoperta “decisiva”, un unico studio che cambi radicalmente le cose. Non dobbiamo aspettarci questo. La Ricerca va avanti, e avanza notevolmente, grazie a un numero veramente alto di migliorie, che provengono dai gruppi sparsi in tutto il mondo. Occorre un’enorme quantità di pazienza e di lavoro. Il progresso si forma su tanti anelli che, solo quando si chiudono, portano alla conoscenza...»

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