neuroscienze

Scoperto il meccanismo
nascosto che può dare
il via alla “mucca pazza”

Lunedì 12 settembre 2022 circa 6 minuti di lettura In deutscher Sprache
Foto di Alfio Tommasini
Foto di Alfio Tommasini

Importante studio firmato da Luca Varani dell’IRB di Bellinzona e da Adriano Aguzzi dell’Università di Zurigo. "Fotografato" il passaggio che provoca la malattia, ora riapparsa nei cervi del Nordamerica
di Agnese Codignola

Era il 1986 quando il laboratorio centrale di veterinaria di Weybridge, in Gran Bretagna, identificò il primo caso di mucca pazza, il nome popolare dell’encefalopatia spongiforme bovina o BSE, in un allevamento dell’Hampshire. Da quel momento (fino al 2001), i casi in Europa furono circa 2.000. Ma già nel 1996 l’Europa era precipitata nel panico: in quell’anno, infatti, fu scoperto, ancora in Gran Bretagna, il primo caso di malattia di Creutzfeld Jacob, la variante umana della BSE che, si sospettò subito, sembrava arrivare da uno spillover, cioè essere passata dalla carne di qualche bovino infetto all’uomo. 

Da allora sono stati segnalati circa cento casi di malattia di Creutzfeld Jacob, in Europa, ma dopo la drastica diminuzione dei casi di BSE tra i bovini, ottenuta grazie alle restrizioni all’utilizzo delle farine animali (che inizialmente venivano prodotte anche con le carcasse di animali contagiati), e al successivo ripristino delle regole precedenti la crisi, di malattie da prioni non se ne è quasi più parlato. Eppure si tratta di patologie endemiche in alcune popolazioni animali, che talvolta vanno incontro a preoccupanti aumenti e che, per il momento, non possono essere contrastate da alcun trattamento o terapia, né negli animali né nell’uomo. E, soprattutto, di patologie oscure, governate da meccanismi che sfidavano le conoscenze dell’epoca, e che era necessario studiare fino nei più piccoli dettagli, per capire come prevenirne la diffusione e le conseguenze. Alcuni lo hanno fatto, e grazie alla loro perseveranza e alle loro intuizioni è stato possibile giungere a una visione molto più chiara di quanto accade. 

Innanzitutto, mentre la crisi era ancora in atto, si è capito – e la scoperta è valsa il premio Nobel per la medicina a uno dei suoi artefici, Stanely Prusiner, nel 1997- che la proteina responsabile, il prione appunto, agiva quasi come se fosse un agente infettivo, trasformandosi nella sua forma alterata e poi trasferendo l’anomalia di conformazione agli altri prioni sani: un tipo di attività assai bizzarra, mai descritta prima e, quindi, tutta da esplorare. 

Nel frattempo, si è capito che non si trattava solo di malattie dei bovini, ma che diverse specie animali soffrivano della loro forma specifica di malattia da prione, al punto che oggi si parla di un’intera famiglia di patologie, e anche questo ha contribuito ad avere una visione più generale. Intanto, altri tasselli del misterioso puzzle venivano svelati, e collocati nella giusta posizione, anche se restano molti aspetti da chiarire.

Adriano Aguzzi

Un passo in avanti importante, per certi aspetti decisivo, è però stato appena compiuto da Adriano Aguzzi, responsabile del Laboratorio di neuropatologia dell’Università di Zurigo, autore, negli anni, di alcune delle scoperte fondamentali sui prioni, e da Luca Varani dell’Istituto di Ricerca in Biomedicina (IRB) di Bellinzona. I ricercatori hanno infatti descritto che cosa avviene a livello quasi atomico quando il prione cambia, e descritto i passaggi in uno studio pubblicato sulla rivista scientifica Nature Structural & Molecular Biology.

Spiega Aguzzi a Ticino Scienza: «La proteina prionica è una proteina presente sulla superficie delle cellule nervose che, di solito, interagisce con un suo recettore specifico posto sulle cellule di Schwann, responsabili del mantenimento dell’integrità della guaina di protezione dei neuroni del sistema nervoso periferico, la mielina, e di altre funzioni di sostegno. Quando il prione muta, la sua conformazione spaziale cambia, e la proteina si accumula dando effetti altamente tossici che, in breve tempo, portano alla malattia conclamata e ai sintomi ben noti, che possono evolvere anche rapidissimamente. Ciò che abbiamo capito è che cosa accade dal punto di vista spaziale quando c’è l’alterazione, documentando i cambiamenti che si verificano in pochi Angstrom (decimi di nanometri), e di fatto in un solo legame chimico debole chiamato ponte a idrogeno, che bastano a influenzare tutta la catena di eventi successivi». 

Luca Varani

Lo studio è stato realizzato ricorrendo a numerosi approcci: da quelli genetici a quelli prettamente biochimici, da quelli cristallografici ai modelli animali, con passaggi cruciali in silico, cioè con simulazioni in sistemi computerizzat. L’intuizione che ha impresso un’accelerazione decisiva agli esperimenti, spiega Aguzzi, è stata quella di Luca Varani, che ha capito che, per “vedere” che cosa succedeva nel passaggio da un prione sano a uno malato, era necessario seguire nel tempo le evoluzioni della proteina, e non solo studiarne le due forme, sana e malata, statiche, e cristallizzate da Aguzzi. «È stato grazie alle simulazioni di dinamica molecolare - sottolinea Aguzzi - che abbiamo individuato le modifiche del ponte a idrogeno, studiate poi con i diversi sistemi biologici».

Se descrivere un processo a un tale livello di dettaglio è di per sé un risultato di grande portata, i ricercatori sono andati oltre, mostrando anche le possibili conseguenze della loro scoperta. Hanno infatti dimostrato che alcune sostanze – anticorpi monoclonali e molecole di piccole dimensioni – che agiscono su quel legame, impedendo che cambi, sono capaci di prevenire l’evoluzione verso la malattia prionica. «Questo non solo conferma che proprio quel ponte a idrogeno e le sue modifiche sono ineludibili affinché si determini una delle malattie prioniche - continua Aguzzi - ma suggerisce anche si possa intervenire farmacologicamente per fermare il processo, ad esempio nei casi (rari, ma ben noti) di forme ereditarie, o tutte le volte che si riesca ad avere una diagnosi molto precoce (obbiettivo per ora lontano dalla realtà). E indica in che punto specifico farlo». Naturalmente, sottolinea ancora Aguzzi, questi sono dati ottenuti in laboratorio e su modelli animali, e sarà dunque necessario confermarli, ampliarli e ripeterli eventualmente nell’uomo. Ci vorranno insomma anni, prima che ciò che hanno descritto i ricercatori elvetici si traduca in qualcosa di utile per i pazienti, ma la comprensione dei meccanismi patologici è sempre il primo passo verso la terapia: senza di essa non è possibile giungere a vere cure ma, nei casi più fortunati, a terapie sintomatiche o solo parzialmente risolutive.

Per quanto riguarda la situazione delle malattie da prioni, l’attenzione dei ricercatori non è mai diminuita, anche perché ci sono grandi aree del pianeta come il Nord America nelle quali i casi sono in aumento, in alcune popolazioni di cervidi, al punto che ci si chiede se sia il caso di vietare il consumo delle loro carni. Tra l’altro, dati appena pubblicati – ricorda Aguzzi – suggeriscono, per ora in modelli animali, che possa esserci uno spillover da cervo a uomo, e l’attenzione è quindi ancora più alta.

Quanto al perché la proteina cambi improvvisamente uno dei suoi legami chimici, ci sono diverse ipotesi, non mutualmente esclusive: «In parte - spiega Aguzzi - può essere un fatto stocastico, cioè del tutto casuale che però, in quella proteina, produce effetti enormi. In parte ci possono essere mutazioni nel gene della proteina, come accade in molte altre malattie che hanno una base genetica, e in parte ci possono essere cambiamenti somatici, che cioè non coinvolgono la struttura del DNA, ma solo il prione, in seguito a sollecitazioni esterne». 

Resta in definitiva molto da capire, ma oggi sappiamo che il prione mutato ha un autentico tallone d’Achille: un legame atomico sul quale forse, in futuro, si potrà intervenire, scoperto grazie alla collaborazione dei due centri di eccellenza elevetici.