Quando i materiali
super-tecnologici riescono
ad "aggiustarsi" da soli
Ricerche d’avanguardia nel Laboratorio di Scienza dei materiali computazionale, diretto da Giovanni Pavan. Si studia come le proprietà dei tessuti biologiche possano essere "trasferite" ai prodotti techdi Michela Perrone
Quando ci tagliamo, consideriamo normale vedere la pelle ricrescere da sola dopo un piccolo intervallo di tempo. Se invece facciamo cadere un vaso, nessuno si aspetta che i cocci si ricompongano in modo autonomo. Esistono nel mondo gruppi di ricerca che cercano di capire come le proprietà dei tessuti biologici si possano applicare a materiali di nuova generazione, sovvertendo il modo stesso con cui pensiamo a una superficie e innescando una sorta di autoriparazione di questi materiali stessi.
Uno di questi team si trova in Svizzera ed è guidato da Giovanni M. Pavan, professore presso il Dipartimento tecnologie innovative della SUPSI (Scuola Universitaria Professionale della Svizzera Italiana) di Lugano, dove è responsabile del Laboratorio di Scienza dei Materiali Computazionale presso l’Istituto di Ingegneria meccanica e tecnologia dei materiali. Da poco più di un anno Pavan è anche professore ordinario al Politecnico di Torino. Con il suo gruppo, in Ticino e in Italia, Pavan è diventato un punto di riferimento a livello internazionale per la costruzione di modelli in grado di spiegare il funzionamento di questi materiali, chiamati self-assembled, cioè autoassemblati. L’ultimo traguardo è il contributo fornito per uno studio apparso sulla rivista Nature.
Tra Nobel e macchine molecolari
Al centro della collaborazione internazionale che ha permesso la pubblicazione di questa ricerca c’è la comprensione del funzionamento di questo tipo di materiali che, in maniera controintuitiva, hanno caratteristiche biologiche, pur essendo estremamente tech.
Tra le proprietà di questi materiali, detti supramolecolari, ci sono per esempio la “memoria di forma” e la capacità di autoguarigione. Sembra fantascienza, invece è chimica: «I materiali che conosciamo - spiega Pavan - sono composti da unità ripetitive tenute insieme da legami chimici primari; se questi si spezzano, il materiale si distrugge o degrada». Esattamente quello che succede al vaso che abbiamo fatto cadere all’inizio di questo articolo. «Nei materiali supramolecolari - aggiunge Pavan - le unità fondamentali si uniscono, invece, tra loro, ma lo fanno tramite interazioni deboli, che sono quindi reversibili». Nella pratica, questo significa avere strutture che possono rispondere in modo elastico a stimoli specifici e che variano al cambiare delle condizioni esterne. Caratteristiche proprie del nostro corpo, che possiamo osservare per esempio quando si forma una cicatrice in seguito a una piccola ferita della pelle.
«Un gruppo di ricerca della giapponese Chiba University, guidato da Shiki Yagai – continua Pavan – era riuscito a realizzare dei catenani supramolecolari (così si dice in termine tecnico), cioè strutture formate a loro volta da molecole che si impilano le une sulle altre, chiudendosi a formare degli anelli». Di fatto, una sorta di catena che conferisce “proprietà biologiche” ai materiali. «Si sono rivolti a noi - spiega Pavan - perché provassimo a elaborare un modello teorico in grado di studiare il meccanismo con cui avveniva la concatenazione degli anelli in “catene polimeriche”». La sfida scientifica era ghiotta e alla SUPsI si sono subito messi al lavoro, con successo.
Semplificando molto, possiamo pensare ai materiali tradizionali come a costruzioni composte da mattoncini Lego, ben incastrati gli uni sugli altri. Per i materiali supramolecolari, invece, possiamo fare riferimento al geomag, altro gioco che non si basa sull’incastro delle sue unità fondamentali, ma sulle proprietà magnetiche delle calamite, creando così legami più deboli e facilmente reversibili. Si tratta di ricerca di frontiera, ma dal potenziale molto alto: nel 2016 il premio Nobel per la Chimica è stato conferito a Fraser Stoddart, Bernard Feringa e Jean-Pierre Sauvage per i loro studi sulle macchine molecolari e, nel caso di Sauvage, proprio per i suoi contributi alla sintesi dei primi catenani, minuscole strutture molecolari “interconnesse”, appunto, controllabili e in grado ad esempio di convertire l’energia chimica assorbita dall’esterno in forze meccaniche, producendo lavoro e quindi in movimento. Queste strutture sono “parenti” dei grandi policatenani autoassemblati che compaiono nel lavoro su Nature condotto con Shiki Yagai.
Gli studi d’avanguardia
«Il bello di lavorare con progetti di ricerca di frontiera è che non sai dove ti possono condurre – sorride Pavan. – Di solito si inizia a studiare qualcosa per un interesse personale, o perché si intravede una possibile applicazione. In realtà, andando avanti, si capisce che esistono scenari cui non si era pensato e che sono molto più affascinanti».
È presto per parlare di possibili applicazioni dei catenani. «Possiamo pensare a materiali capaci di dissipare il calore con grande efficienza, per esempio, oppure di trasformare energia assorbita dall’esterno in moto o lavoro. Ma allo stato attuale non siamo in grado di dire molto di più. I catenani sono molto difficili da produrre e finora questo ha limitato lo studio delle loro proprietà. Con questo tipo di ricerca di frontiera, tuttavia, è possibile che le scoperte che faremo portino ad applicazioni tecnologiche che ancora non riusciamo a concepire. Del resto, quando sono state scoperte le caratteristiche dei primi semiconduttori, nessuno immaginava che oggi i transistor sarebbero stati fondamentali per comunicare tramite i nostri dispositivi elettronici o per accendere la nostra automobile».
Negli ultimi anni, Pavan ha collezionato una serie di successi professionali: nel 2015 il Fondo nazionale svizzero ha finanziato un suo progetto sui processi di autoassemblaggio dei materiali, mentre a fine 2018 ha vinto un ERC Consolidator Grant, il prestigioso premio europeo assegnato per la ricerca di frontiera. Fino al 2024 avrà a disposizione due milioni di euro per la ricerca computazionale sui nuovi materiali. L’anno scorso, infine, Pavan è diventato, come dicevamo, professore ordinario al Politecnico di Torino, ad appena 38 anni. «Quest’ultimo periodo è stato davvero ricco professionalmente – commenta il diretto interessato – e questo non può che rendermi orgoglioso. Alla SUPSI ho avuto la grande fortuna di poter lavorare in modo indipendente su ciò che mi interessava davvero, e a poco a poco ho potuto costruire un gruppo di ricerca multidisciplinare».
Quando i primi risultati sono cominciati ad arrivare, sono fioccate anche le proposte di lavoro: «Ho scelto di restare dov’ero e non me ne sono pentito. La mia carriera accademica non è stata standard e a volte mi chiedo cosa sarebbe successo se avessi preso strade diverse. Guardandomi indietro, però, sono soddisfatto di quello che ho realizzato».’