Quando lo studio della musica
si intreccia alla Ricerca
(e al miglioramento della salute)
Anche la promozione del benessere sociale fa parte delle attività della Scuola Universitaria di Musica, affiliata alla SUPSI. Una serie di workshop cerca di fare luce sulle diverse anime dell’insegnamentodi Simone Pengue
Chi entra per la prima volta nel Conservatorio della Svizzera italiana (CSI) resta facilmente ammaliato dalla musica dei violini che si diffonde dalle finestre, dal pianoforte che riecheggia dietro i vetri dell’aula magna, o dai gorgheggi che risuonano dalle aule di canto. Non immagina, però, che qui si fa anche ricerca, per la precisione nel suo dipartimento Scuola Universitaria di Musica (SUM). Certo, conciliare l’attività più propriamente artistica dei musicisti d’eccellenza, quella didattica e quella di ricerca non è affatto facile. Lo conferma uno studio dell’Hochschule Luzern di due anni fa, che ha messo in luce la difficoltà, presente nelle scuole d’arte, di sostenere lo sviluppo dei differenti profili di competenza, di facilitare la loro armonizzazione e di promuovere la convergenza di queste figure su progetti condivisi. Così, per costruire un momento di dialogo e di riflessione, la SUM ha organizzato una serie di sei workshop (laboratori) che si tengono dal 31 ottobre al 12 dicembre nella sede di Lugano rivolti a docenti, musicisti e semplici appassionati. Questi workshop si collocano all’interno di un importante progetto finanziato da Swissuniversities (l’organizzazione mantello delle università svizzere), che vede coinvolte anche altre scuole universitarie e offre l’occasione di dialogare sui limiti del modello derivante dalla riforma di Bologna, che risale al 1998, e sulle sfide che ancora rimangono da affrontare.
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Durante uno dei laboratori (per la precisione, il terzo) gli esperti hanno affrontato un tema particolare della ricerca transdisciplinare: quello finalizzato alla promozione della salute e del benessere sociale, riflettendo sulle condizioni necessarie affinché un conservatorio possa condurre progetti scientifici in quest’area. Per l’occasione, il direttore del CSI Christoph Brenner e il direttore Ricerca, sviluppo e trasferimento della conoscenza SUPSI Emanuele Carpanzano, si sono uniti in una tavola rotonda con i due relatori della serata, Guenda Bernegger, docente-ricercatrice senior nel Centro competenze pratiche e politiche sanitarie SUPSI, e Paolo Paolantonio, musicista e ricercatore della SUM. Paolo Paolantonio ha offerto una panoramica su alcune delle ricerche avviate dalla Scuola Universitaria di Musica negli ultimi anni nei settori sociali e sanitari, per promuovere il benessere delle persone anziane o delle persone con malattia di Parkinson attraverso la musica.
Il dibattito, che ha permesso al pubblico di confrontarsi direttamente con i quattro relatori, ha cercato di chiarire le condizioni della ricerca scientifica svolta alla SUM, che è affiliata alla SUPSI dal 2006. Il professore di ricerca Massimo Zicari, promotore della serie di eventi assieme a Paolo Paolantonio, commenta che «a quasi venticinque anni di distanza dalla riforma delle scuole universitarie professionali, si constata una certa difficoltà a far dialogare i ricercatori con gli altri profili. È complesso anche formarli, perché spesso sono il risultato di scelte individuali e non necessariamente parte di un processo di sviluppo strutturale e organico». Il confronto serve a riflettere non solo sulle difficoltà istituzionali e accademiche, ma anche sul futuro ruolo del conservatorio, dei suoi docenti e dei suoi laureati. Come sottolinea Paolo Paolantonio, «il mercato del lavoro e quello della fruizione musicale e culturale sono cambiati tantissimo e quindi forse la figura del musicista, per quanto eccellente, va rivista in maniera sostanziale per essere in linea con questi cambiamenti. Detto in maniera più colloquiale, saper suonare bene uno strumento, per tanti motivi, potrebbe non essere più sufficiente per avere garanzia di una carriera».
La ricerca alla SUM viene attualmente condotta da due ricercatori junior e tre professori di ricerca, specializzati ciascuno in un ambito diverso: teoria e composizione, performance e pedagogia. Quest’ultima va «intesa in modo allargato, cioè non solo guardando all’insegnamento della musica nel senso più tradizionale, ma anche a quelle forme di mediazione che hanno nella musica uno strumento di intervento in contesti non canonici. Come chiarisce Massimo Zicari a proposito della propria area, «al di fuori dei tradizionali luoghi di fruizione musicale, quindi rivolgendosi ai pubblici più marginali o alle comunità fragili, si può intervenire attraverso la musica per produrre benessere e incrementare il livello di salute». Non si tratta di musicoterapia, ovvero di interventi che fanno uso di brani musicali caratterizzati da sonorità, ritmi, melodie o armonie specifiche, scelte per rispondere ai bisogni di un paziente o di un dato quadro clinico; nel nostro caso si parla di un approccio che punta a migliorare il benessere delle persone in un determinato contesto sociale o sanitario attraverso l’ascolto e la pratica musicale. «La musica ha una posizione centrale, nel senso che non si vanno ad utilizzare precisi parametri musicali in funzione di specifici obiettivi terapeutici, ma si mette al centro dell’intervento un protocollo musicale che mira ad essere espressivo», chiarisce il ricercatore Paolo Paolantonio. Nel concreto, questo si traduce in momenti di gruppo in cui ascoltare musica tutti assieme, oppure suonarla con semplici strumenti. «Utilizziamo alcune percussioni con approcci che non richiedono nessun tipo di preparazione. – specifica il ricercatore – Questa pratica facilita non solo gli aspetti motori, ma anche quelli di comunicazione visiva, sincronizzazione e coordinazione con gli altri».
Grazie al successo dei progetti precedenti, attorno ai ricercatori della SUM si è costruito un circolo virtuoso di traguardi e interessi, che hanno portato altre istituzioni o addirittura le stesse persone in difficoltà a contattarli per avviare sperimentazioni in contesti nuovi. Un nuovo progetto promosso da Innosuisse e condotto in collaborazione con l’Associazione Autismo Svizzera e alla Fondazione ARES sta coinvolgendo ragazzi affetti da disturbi dello spettro autistico, sviluppato in collaborazione con Angela Pasqualotto e Nicola Rudelli del Centro competenze Bisogni Educativi, Scuola e Società della SUPSI. «L’idea è quella di ascoltare un certo tipo di musica e farlo in un modo particolare, magari associandolo a degli stati d’animo, a dei momenti della giornata o dei momenti del vissuto. Oppure esplorare più da vicino certi strumenti e certi generi o ancora fare collettivamente esperienze di pratica musicale attraverso l’uso delle percussioni». Oltre a portare benessere alle persone, l’obiettivo della ricerca è costruire, valutare e diffondere un protocollo d’intervento che possa essere replicato altrove. Contemporaneamente, con Laura Bertini del Centro di documentazione e ricerca sulle migrazioni della SUPSI, i due ricercatori della SUM stanno sviluppando un progetto dedicato ai richiedenti asilo minorenni non accompagnati, che pur sperimentando attività simili aggiunge anche la dimensione degli operatori. Come spiega Massimo Zicari, «l’idea è quella di valutare l’impatto non soltanto sui soggetti o sulla comunità di soggetti, ma anche sulla loro relazione con gli operatori e, di conseguenza, sulla qualità della comunità che compongono e dell’ambiente in cui vivono e lavorano».
Il ruolo delle arti e della musica nel benessere delle persone, soprattutto sul lungo periodo, sta diventando sempre più evidente anche in contesti e modalità di fruizione molto differenti. Scientificamente, non è semplice scorporare il contributo dell’arte dall’aspetto interpersonale dell’esperienza che, come spiega Paolo Paolantonio, gioca un ruolo fondamentale: «In generale, queste attività agiscono spesso come dei vettori sulla dimensione cognitiva, ma anche su quella sociale, perché attivano canali di comunicazione che richiedono una partecipazione attiva».