Fondazione Sasso Corbaro

Più empatia e coinvolgimento:
da Bellinzona uno studio
contro la "violenza ostetrica"

Sabato 29 ottobre 2022 circa 5 minuti di lettura In deutscher Sprache

Iniziativa in collaborazione con la George Washington University (USA). I ricercatori proveranno a valutare in modo globale la gravidanza, per superare gli stereotipi e capire di cosa hanno davvero bisogno le madri 
di Patrizia Tamarozzi

Una rete internazionale di psicologi, medici, linguisti e sociologi che al di qua e al di là dell’Atlantico s’infileranno nei panni delle madri per discutere da una prospettiva diversa la gravidanza e il parto. È l’obiettivo di un progetto di ricerca appena partito che per tre anni vedrà allineate la Fondazione Sasso Corbaro di Bellinzona e la George Washington University negli Stati Uniti.
«Si tratta di un’analisi comparata e interdisciplinare di narrazioni relative alla maternità –  racconta Laura Lazzari Vosti, collaboratrice scientifica della Fondazione Sasso Corbaro per le Medical Humanities, promotrice e responsabile di questa ricerca per la Svizzera. – Lo scopo è quello di comprendere i vissuti materni nella cultura contemporanea, facendo dialogare scrittura e scienza, e lasciando emergere nuovi modelli che metteranno in discussione la tradizionale immagine materna, spesso univoca e stereotipata. Questo progetto introdurrà i Motherhood Studies anche in Svizzera, cioè gli studi che permettono di studiare gravidanza, parto e post-parto in un’ottica più globale per capire cosa si aspettano e di cosa hanno davvero bisogno le madri».

E sarà una ricerca utile per comprendere meglio i risultati di un recente studio della Scuola Universitaria Professionale bernese (BFH), in base al quale circa il 27% delle neomamme in Svizzera vive ancora il parto come un trauma e dichiara di aver subito misure in qualche modo coercitive. Un dato preoccupante ma comunque in linea con la percentuale europea che si assesta attorno al 30%.                           
Scarsa comunicazione con lo staff medico-ginecologico, eccessiva medicalizzazione del parto e utilizzo troppo frequente di tecniche come cesareo, episiotomia e manovra di Kristeller (pressione manuale sul fondo uterino durante una contrazione): queste sono le lamentele più frequenti delle mamme. Anche le ultime Linee Guida dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) raccomandano un minore ricorso al cesareo e indicano un 10-15% come tasso ottimale (utile per la salvaguardia del benessere del bambino e della madre), mentre in Svizzera (e nella maggior parte dell’Europa occidentale) la percentuale oscilla attorno al 30% dei parti totali.

«Le partorienti arrivano in ospedale aspettandosi sempre un parto fisiologico, ma a volte, per tutelare la salute di mamma e bambino, non può essere così. Capita che esso debba essere indotto con farmaci, o che sia necessario il cesareo – spiega Andrea Papadia, primario del Servizio di ginecologia e ostetricia presso l’ospedale Regionale di Lugano e direttore del Dipartimento di ginecologia e ostetricia dell’Ente Ospedaliero Cantonale (EOC). - In questi casi, però, è molto importante che la donna e il suo compagno siano bene informati sulle motivazioni che rendono inevitabile una certa scelta. Inoltre è bene ricordare che nella tecnica del taglio cesareo si sono fatti molti passi avanti: ad esempio si pratica il cosiddetto “cesareo gentile”, in cui il padre può assistere, la mamma può vedere nascere il bambino e tenerlo subito sul seno. La tanto discussa manovra di Kristeller ormai non si fa più. Credo che andrebbe evitata ovunque; se necessario è semmai preferibile il ricorso a ventose. È fondamentale, in ogni caso, condividere con i futuri genitori tutti i passi del travaglio».

In effetti secondo lo studio della BFH l’87% delle donne ritiene fondamentale il coinvolgimento, e vuole partecipare in modo completo alle decisioni insieme al personale specializzato.

«Molte donne temono l’episiotomia, hanno paure spesso infondate – racconta Annalisa Ruzittu, coordinatrice infermieristica del Dipartimento di ginecologia e ostetricia EOC, e capo reparto infermieristico. – Occorre far capire alla partoriente che si ricorre a questa tecnica soltanto quando ci sono particolari segni clinici nella donna o un’evidente sofferenza fetale, per cui occorre velocizzare il parto. Il focus deve sempre essere il benessere del bambino e della madre. In generale, comunque, il numero delle episiotomie è in costante calo» (l’episiotomia, lo ricordiamo, è un’incisione chirurgica nel perineo, fra l’apertura vaginale e l’ano).

Donne sempre più coinvolte e personale con una formazione più mirata verso l’empatia: questa è la direzione verso cui ci si sta muovendo negli ospedali svizzeri per migliorare la percezione del parto. «Lo scopo è che ogni donna ci arrivi a modo suo, che non venga forzata – continua Annalisa Ruzittu. – Noi, ad esempio, invitiamo la madre a fornire all’ospedale un "piano del parto" in cui descrivere aspettative e preferenze, tipo musica diffusa, luci basse  Secondo la ricerca bernese, il 39% delle partorienti si lamenta perché quasi costretta a stare ferma durante il travaglio. Un dato sconcertante, visto che, se non ci sono problemi particolari, è molto utile camminare in questa fase. Bisogna mettere la donna nella condizione di poter scegliere il percorso migliore per lei: non è detto, ad esempio, che la classica posizione del parto a pancia in su sia la più adatta. Ci sono varie opzioni che vanno proposte: la sedia maya, per partorire da sedute, o le vasche, per farlo nell’acqua. Inoltre la coppia va seguita sia prima che dopo: i nostri corsi pre-parto terminano tre o quattro settimane dopo il parto con un momento serale di ascolto e confronto per genitori che spesso escono dopo cena per la prima volta. Infine suggeriamo a ogni donna una levatrice indipendente, che possa seguirla nel ritorno a casa».

Insomma, quello della “violenza ostetrica” è un tema attorno a cui si stanno concentrando molti sforzi e iniziative. Una fra tutte: gli incontri mensili del gruppo di Auto-aiuto dell’Associazione Nascere Bene di Lugano.