oncologia

Per la prima volta solo virtuale
il congresso internazionale
di Lugano sui linfomi maligni

Domenica 13 giugno 2021 circa 7 minuti di lettura In deutscher Sprache

Le norme anti-Covid hanno costretto gli organizzatori dell’International Conference on Malignant Lymphoma a optare per la versione digitale. Di norma arrivavano circa 4000 persone. Il parere di Franco Cavalli
di Paolo Rossi Castelli

Si è svolto in modo solo virtuale, per la prima volta nei suoi 40 anni di storia, il Congresso internazionale sui linfomi maligni (ICML), l’evento scientifico più importante del Ticino, previsto a Lugano dal 18 al 22 giugno. È l’effetto della pandemia, che ha reso difficilissimo il lavoro degli organizzatori di eventi come questo, da programmare con forte anticipo. Nel caso dell’ICML, che ha cadenza biennale, l’attività per dare vita a ogni nuova edizione comincia non appena finisce quella precedente... E gli scorsi mesi, tormentatissimi e “bloccati” dalle norme anti-Covid, hanno impedito agli organizzatori - in primis a Franco Cavalli, da sempre l’anima del congresso - di procedere secondo i canoni classici: raccogliendo, cioè, le iscrizioni di medici, biologi e ricercatori di tutto il mondo (due anni fa ne erano arrivati quasi 4000), intenzionati a venire di persona a Lugano per partecipare all’ICML, che è considerato uno dei più importanti appuntamenti, a livello internazionale, sui linfomi maligni (i tumori che prendono origine dal sistema linfatico). Non sapendo come si sarebbe sviluppata la pandemia e quali norme avrebbero emanato le autorità, il comitato organizzatore ha preferito optare, sia pure a malincuore, per un congresso solo online, con un forte danno anche economico (le quote di iscrizione, necessariamente, sono molto più basse rispetto alla forma tradizionale, che prevede anche pranzi, permanenza al Palazzo dei congressi e partecipazione ad altre attività, mentre i costi rimangono alti). E anche le strutture ricettive e turistiche di Lugano hanno perso un’ingente somma di denaro, calcolando che almeno la metà dei partecipanti, nelle edizioni passate, portava un familiare o un accompagnatore, per un totale di 5500-6000 persone. Non male, per una città di 70000 abitanti, con 3200 camere e 6000 posti letto negli alberghi.

Dunque, un cogresso necessariamente virtuale...

«Sì, l’ICML (siamo arrivati alla sedicesima edizione, per essere precisi) si è snodato attraverso quattro canali digitali online, attivi contemporaneamente e “governati” in diretta da altrettante sale di regia, presenti fisicamente al Palacongressi di Lugano - risponde Cavalli. - Ogni sessione ha avuto un “chairman” in diretta (collegato da città diverse, anche molto lontane fra loro, come New York o Pechino), e chi ha assistito in modo virtuale alle diverse relazioni ha potuto inviare domande. Molti autori erano online per rispondere, anche se la maggior parte dei loro interventi, in verità, non ha avuto luogo in tempo reale (sono state mandate online registrazioni eseguite in precedenza, per evitare una sovrapposizione di “dirette” troppo complessa da gestire)».

Come avete fatto a conciliare i diversi fusi orari?

«Questo è stato un problema molto serio, in effetti (uno dei tanti...). Nelle edizioni passate i lavori del congresso iniziavano ogni giorno alle 8 e finivano verso le 20. In questo modo potevamo ospitare moltissimi appuntamenti, relazioni, incontri. Le 8 di mattina, però, corrispondono alle 23 della California e alle 2 di notte in città come New York. Quindi abbiamo deciso di cominciare alle 14, cioè a un orario che poteva andare bene almeno per una parte degli Stati Uniti e anche per l’Estremo oriente, dove le lancette, al contrario, corrono già verso la sera/notte. Ma così facendo l’orario operativo del congresso si è ridotto di 6-7 ore al giorno, ovviamente. E si può facilmente immaginare quanto sia stato complicato, per noi, dare spazio a tutto il materiale...»

Nonostante le difficoltà, avete comunque ricevuto numerosi lavori scientifici, da proporre poi durante il congresso

«Quest’anno ne sono arrivati quasi 600: un po’ meno, rispetto al solito, ma durante il periodo di Covid è avvenuta la stessa cosa anche per gli altri  congressi. Soprattutto, si è ridotta la quantità di studi clinici, cioè di quelli eseguiti direttamente sui malati, per le modifiche profonde nell’organizzazione degli ospedali, orientati in maggioranza alla cura del Covid, nei mesi scorsi, come sappiamo. La qualità degli studi (a questo punto, soprattutto di laboratorio) è rimasta molto alta, in ogni caso».

Quali sono i Paesi che hanno contribuito di più?

«Anche per questa edizione la produzione più ampia è arrivata dagli Stati Uniti: il 25 per cento degli abstract (cioè dei riassunti dei lavori scientifici) aveva il “marchio” USA. Al secondo posto, i cinesi. È una novità degli ultimi 15 anni (prima non accadeva). E la qualità di questi abstract, devo dire, è sempre più alta».

Com’è avvenuta la selezione?

«Non abbiamo accettato studi già pubblicati sulle riviste scientifiche. Chi si è collegato al nostro congresso ha trovato davvero le novità. Abbiamo attuato una selezione molto rigida del materiale ricevuto. Solo il 18%, circa, è stato accettato per presentazioni orali. Il 30% è stato diffuso attraverso i poster, mentre un altro 40% è comparso soltanto negli atti del congresso. Il resto è stato rifiutato».

Chi ha deciso?

«Un “advisory board” (un comitato consultivo) formato da una trentina di persone di varie nazionalità. Con loro abbiamo scelto le letture principali (quelle che vengono chiamate “key lectures”), e anche il ricercatore a cui assegnare la Kaplan lecture, collegata all’ICML Prize, un riconoscimento per risultati particolarmente significativi ottenuti nello studio e nella cura dei linfomi. L’advisory board ha deciso anche i temi-guida del congresso. Poi un comitato organizzativo locale, di cui ho fatto parte anch’io, ha letto tutti gli abstract (ognuno è stato inviato ad almeno 4 revisori esterni), dando una sorta di voto finale. Sulla base di questa valutazione sono stati selezionati gli abstract da portare al congresso, nelle varie forme».

Resterà qualcosa di questa "rivoluzione" digitale nelle prossime edizioni del congresso?

«Forse fra due anni manterremo anche la modalità online, oltre a quella in presenza, registrando l’intero congresso e mettendolo a disposizione per chi non avrà la possibilità di venire a Lugano. In quel caso proporremo - per la versione digitale - una quota di iscrizione molto ridotta. Ma già quest’anno, d’altronde, abbiamo chiesto solo un terzo della quota alle persone che vivono in Paesi a basso reddito».

Dal punto di vista scientifico, quali sono stati i temi più caldi?

«Rispondo subito: le CAR-T cells (cellule del sistema immunitario prelevate dai pazienti e potenziate in laboratorio, tramite l’ingegneria genetica, ndr). Siamo ormai arrivati alla seconda e terza generazione, e i dati confermano l’efficacia di questo tipo di terapia.
Abbiamo poi presentato un importante studio della Columbia University su alcune scoperte di Riccardo Dalla Favera a proposito della “cellula madre” che sta alla base di alcuni tipi di linfomi.
Infine, il ruolo della PET, la tomografia a emissione di positroni: già due anni fa si era visto che utilizzando questa attrezzatura diagnostica in modo più sofisticato si potevano ottenere risultati particolarmente precisi e importanti. Adesso è stato confermato che tramite la PET è possibile personalizzare le terapie anche per determinati tipi di linfomi: quelli “non Hodgkin” più aggressivi (prima non si riusciva)».

Un bilancio per quanto riguarda la cura dei linfomi maligni?

«Il progresso continua, con risultati sempre migliori. Oltre alle CAR-T cells, di cui parlavo, una speranza importante arriva dai cosiddetti anticorpi bispecifici: anticorpi monoclonali realizzati con tecniche particolarmente avanzate, cioè, che sono in grado di “catturare” sia i linfociti T che quelli B diventati cancerosi. Uniti in questo “abbraccio” forzato, i linfociti B vengono annientati da quelli T. Gli anticorpi bispecifici, in realtà, si utilizzano già da 6 o 7 anni, ma i primi avevano una forte tossicità. Adesso sono diventati molto più gestibili (diverse sperimentazioni sono in corso). Se dovessi scommettere su una terapia per il futuro, punterei proprio su di loro...»

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La foto di Franco Cavalli è di Marian Duven

 

 

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