cultura e salute

Musica come cura, lezione 6
Alfredo Raglio: così aiutiamo
chi è colpito da demenze

Lunedì 28 novembre 2022 circa 7 minuti di lettura In deutscher Sprache
 Alfredo Raglio, musicoterapeuta e ricercatore agli Istituti Clinici Scientifici Maugeri di Pavia
Alfredo Raglio, musicoterapeuta e ricercatore agli Istituti Clinici Scientifici Maugeri di Pavia

di Valeria Camia

Perdita di memoria (a breve termine); difficoltà del linguaggio e compromissione delle capacità di comunicazione; riduzione dell’attenzione; pensieri e ragionamenti confusi: sono questi alcuni dei segnali d’allarme più comuni che caratterizzano una patologia come la demenza, malattia organica degenerativa che interessa le funzioni cognitive e interferisce con le normali attività della vita quotidiana. Si stima che almeno il 10% della popolazione sopra i 65 anni sia affetto da demenze ma il dato è destinato a crescere (nei prossimi 30 anni è previsto un aumento della popolazione anziana di oltre il 200% nei Paesi industrializzati) al punto che parlare della demenza come di una vera e propria emergenza sanitaria non sembra improprio. Infatti, se da un lato l’aspettativa di vita di chi è affetto da questa malattia è relativamente lungo (anche oltre 10 anni), dall’altro i trattamenti farmacologici di cui disponiamo sono poco efficaci. 

Anche per questo motivo, e già da alcuni anni, la ricerca scientifica ha iniziato a guardare a un approccio terapeutico diverso e complementare. Si tratta di musicoterapia, ovvero l’uso della musica e dei suoi elementi (come suono, ritmo e armonia) da parte di un musicoterapista qualificato che, in rapporto individuale o di gruppo, va a facilitare e promuovere obiettivi quali ad esempio la comunicazione, le relazioni e la mobilizzazione del paziente nella prospettiva di assolvere bisogni fisici, emotivi, mentali, sociali e cognitivi. I risultati, ottenuti ottenuti nell’ambito di diversi studi, sono apparsi soddisfacenti, soprattutto per quanto riguarda il miglioramento della qualità vita e dei disturbi comportamentali presenti nelle persone affette da demenza.
Di questi temi si parlerà lunedì 28 novembre alle 18 nell’aula polivalente del Campus est di Viganello, in occasione della sesta lezione del corso Musica come cura organizzato dalla Facoltà di scienze biomediche dell’Università della Svizzera italiana (USI) in collaborazione con la Divisione Cultura della Città di Lugano, con la IBSA Foundation per la ricerca scientifica e con il Conservatorio della Svizzera italiana. Uno dei relatori sarà Alfredo Raglio, musicoterapeuta e ricercatore agli Istituti Clinici Scientifici Maugeri di Pavia, che da lungo tempo si occupa di musicoterapia per le demenze e per la riabilitazione neurologica.

Dottor Raglio, “demenza” è una parola che ci spaventa, una malattia per la quale non c’è cura. Ora però sembra che la musica possa per lo meno aiutare a migliorare la qualità di vita dei pazienti e a potenziarne le risorse residue. È così?

«Diversi studi - risponde Raglio - hanno dimostrato che l’utilizzo del suono e della musica ha una valenza molto importante in queste persone, perché serve a riattivare una comunicazione arcaica, espressiva ma non-verbale. In questo senso, il canale sonoro-musicale aiuta la persona affetta da demenza a trovare una modalità per esprimere emozioni e per comunicare by-passando in parte le funzioni cognitive superiori, quelle più compromesse dalla malattia. Così facendo la musicoterapia va a migliorare la qualità della vita di persone con demenza, le quali hanno una prospettiva della malattia molto lunga. Ma non solo. La musicoterapia (attraverso tecniche attive e di ascolto musicale) è utile per ridurre e modulare/regolare i disturbi del comportamento, quali l’agitazione, l’irritabilità, l’ansia ma anche i sintomi depressivi. Tutto ciò, di riflesso, supporta le cure tradizionali e l’assistenza rivolta alla persona con demenza, nei contesti istituzionali e familiari».

Concretamente come si applica la musicoterapia ai malati?

«L’ascolto musicale può essere proposto attraverso tecniche musicoterapeutiche che implicano una certa integrità cognitiva (questi approcci sono quindi possibili solo nelle fasi iniziali di malattia), ma anche come una proposta che si basa sulla fruizione musicale (playlist individualizzate) indipendentemente dall’integrità psico-cognitva e dall’interazione con il musicoterapeuta. In quest’ultimo caso è la musica ad agire, e quindi l’intervento è adatto persino nelle fasi più avanzate della malattia. L’ascolto musicale è solitamente finalizzato alla riduzione dei disturbi del comportamento, all’incremento del benessere e al miglioramento della qualità di vita. Anche l’utilizzo di algoritmi specifici (tema trattato in un’altra lezione del corso sulla "Musica come cura"), che prescindono dalla biografia musicale della persona con demenza (frequentemente "dimenticata"), potrebbe essere proposto con finalità de-attivanti,  per esempio per ridorre uno stato di agitazione. Questa è attualmente un’ipotesi che va testata, in quanto studi sull’effetto della musica creata da algoritmi sono stati condotti fino ad ora in altri contesti clinici».

Sembrerebbe quasi che musica parli al cuore del paziente in situazioni in cui il cervello e le sue capacità sono compromesse... 

«Direi che la terapia con musica stimola certamente le parti più integre nella persona con demenza, agendo sulla componente emotivo-affettiva. Il mediatore sonoro-musicale permette di entrare in contatto empatico con l’altro e di trovare punti di connessione con il paziente. Attraverso la musicoterapia è possibile aprire canali di comunicazione ristabilendo  un circuito relazione in cui la persona si può riconoscere». 

Empatia a parte, è possibile quantificare "quanta musica serve" per raggiungere risultati terapeutici soddisfacenti in contesti di demenze?

«Il tema va ancora approfondito, sia per quel che riguarda la durata del trattamento (quante sedute), sia per l’esposizione allo stimolo (quale frequenza). Sulla base dei nostri studi, possiamo comunque affermare che un periodo di qualche mese (da quattro a sei) con un’esposizione bi/tri-settimanale può dare risultati interessanti e significativi nella riduzione del disturbo comportamentale associato alle demenze. Da approfondire è quanto dura nel tempo l’effetto terapeutico: abbiamo notato che un ciclo continuativo è maggiormente efficace rispetto a cicli ripetuti intervallati da sospensioni. È importante che la ricerca prosegua al fine di aumentare le nostre conoscenze e definire protocolli applicativi basati sulle evidenze».

Un’altra applicazione della musicoterpaia, della quale Lei si occupa, riguarda l’ambito neuro-riabilitativo. Ce ne può parlare?

«In questo campo le esperienze sono numerose e rivolte ad aspetti di riabilitazione neuro-motoria e cognitiva. Si è visto che la musica ha un impatto molto importante sulle nostre aree cerebrali, in particolare quelle deputate al movimento strettamente connesse alla componente ritmica. Si è sviluppata così la "Neurologic Music Therapy", che utilizza esercizi musicali per la riabilitazione del movimento degli arti superiori e inferiori in malattie molto importanti quali l’ictus, il Parkinson e la sclerosi multipla. Nel nostro laboratorio di ricerca stiamo lavorando con tecniche avanzate chiamate "sonificazione" (sonification, in inglese) ad esempio per la riabilitazione dell’arto superiore e della mano, in particolare dopo un ictus. Si tratta di fornire al paziente un insieme opportunamente selezionato di stimoli sonoro-musicali che lui stesso attiva, con la mediazione di un sensore. Questi stimoli sono la rappresentazione sonora dei movimenti, soprattutto dal punto di vista temporale e spaziale. Durante la riabilitazione il paziente compie il movimento che viene letto dai sensori ed è associato alla produzione di suoni che acquisiscono coerenza (in quanto predisposti in una certa sequenza preordinata), in rapporto alla qualità del movimento. Attraverso il suono che produce, il paziente ha un feedback relativo alla qualità del suo movimento. I nostri risultati suggeriscono che le sessioni di sonificazione possono essere considerate un intervento standardizzato efficace per l’arto superiore, nella riabilitazione subacuta dell’ictus».