Musica come cura, lezione 4 Christian Gold: dati contrastanti sulla terapia dell’autismo
di Valeria Camia
A partire dagli anni ’90, nuovi e sempre più accurati strumenti di neuroimaging (dalla risonanza magnetica alla tomografia a emissione di positroni, all’elettroencefalografia, per citarne alcuni) ci hanno permesso di osservare e studiare meglio il cervello e di capire come funziona. Così è stato possibile confutare fallacie e assunti di lunga data, come quello secondo il quale la musica e il parlato sarebbero percepiti da reti cerebrali in gran parte separate e indipendenti! Oggi infatti sappiamo che quando ascoltiamo un brano musicale, si attivano entrambi gli emisferi del cervello – quindi sia quello sinistro, che si occupa della parte logica e si concentra sul linguaggio, sia quello destro che gestisce le funzioni più intuitive e attiva l’immaginazione dando vita alle emozioni.
Le potenzialità terapeutiche della musica (sia essa ascoltata, suonata, improvvisata o ballata) sono rilevanti e l’applicazione della musicoterapia al campo medico non è lasciata “al caso”, ma si basa su studi scientifici. Proprio di queste evidenze si sta occupando il corso Musica come cura, organizzato dalla Facoltà di scienze biomediche dell’Università della Svizzera italiana (USI) in collaborazione con la Divisione Cultura della Città di Lugano e con la IBSA Foundation per la ricerca scientifica, e - quest’anno - anche con il Conservatorio della Svizzera italiana.
Nelle sette lezioni del corso, diversi relatori di rilievo internazionale stanno proprio mostrando alcune delle numerose ricerche le quali indicano come canzoni e melodie siano un vero toccasana per la salute e un valido aiuto contro l’ansia e la depressione, così come nella gestione di diverse sindromi cliniche tra le quali i deficit di lettura e di apprendimento, e - in alcuni casi - la demenza e le malattie neurodegenerative. Ma la musica è sempre più utilizzata per stimolare anche l’esercizio muscolare, costituendo un’utile terapia nei pazienti con lesioni motorie. Non da ultimo, la pratica musicale pare rinforzare la cosiddetta "riserva cognitiva", ovvero quel bagaglio di funzione cerebrale che fa da contrasto allo sviluppo della demenza nella terza età.
Stiamo quindi vivendo un momento importante nella ricerca sull’applicazione terapeutica della musica. «E adesso è il momento di utilizzare i dati finora raccolti per affinare le domande e i metodi di ricerca e per valutare l’efficacia della musicoterapia su larga scala, quindi accrescendo il numero di pazienti coinvolti e comparando i risultati tra i diversi studi» – spiega Christian Gold, docente al Norwegian Research Centre (NORCE) di Bergen e all’Università di Vienna. – Questo è necessario, affinché la musica possa venire universalmente proposta a gruppi eterogenei e in diversi contesti». Infatti, per il raggiungimento di questo obiettivo, di strada da fare ne rimane: diverse evidenze scientifiche dimostrano come in un ambiente preciso, in un certo Paese, con un certo terapista, la musicoterapia permette di raggiungere risultati simili a quelli ottenuti con la terapia clinica; tuttavia i risultati sono meno chiari e i contorni si fanno più sfumati quando si confrontano soggetti diversi e si testano gruppi numerosi e eterogenei.
«Se volessimo ricorrere a un linguaggio clinico – continua Gold, relatore della quarta lezione del corso Musica come cura (che si terrà il 14 novembre, ore 18, nell’aula polifunzionale del Campus est di via La Santa 1 a Lugano) – potremmo dire che la ricerca ha concluso la fase 2 dello studio sulla musica come terapia: è stato valutato, cioè, come “portare” (o, se si vuole, somministrare) la musica ai pazienti (in quali contesti e con quali modalità) ed è stato testato, in singoli progetti, il fatto che l’ascolto musicale non sia deleterio, non faccia male, per i pazienti. Ora ci troviamo nella fase 3, che prevede di prendere in esame gruppi di pazienti più numerosi per valutare se e quanto i trattamenti che ricorrono alla musica siano migliori rispetto a quelli già esistenti. Si tratta di ricerche longitudinali (nel tempo) e comparate. Ciò significa confrontare diversi gruppi e coinvolgere più aree geografiche. Inoltre è ora necessario procedere attraverso studi controllati randomizzati (randomised controlled trial); essi sono studi in cui i partecipanti vengono assegnati in modo casuale a due gruppi: il gruppo sperimentale che riceve il trattamento con la musica e il gruppo di controllo, che non lo riceve».
Ciò è proprio quello che è stato fatto dal professor Gold e da un team di ricercatori internazionali nell’ambito di un recente studio sulla terapia musicale nei bambini con la diagnosi di autismo (qui per maggiori dettagli). «Lo studio, chiamato TIME-A, ha visto coinvolte nove nazioni nei cinque continenti e oltre 300 piccoli pazienti tra i quattro e i sette anni. A un gruppo di bambini, scelti in modo random, cioè casuale, è stato proposta una terapia con l’uso della musica, mentre l’altro gruppo di bambini non è stati seguito tramite la musicoterapia. Dopo cinque mesi non sono stati riscontrati significativi miglioramenti del linguaggio e della parola, e nemmeno motori, nei bambini che avevano ricevuto una terapia attraverso canzoni e suoni, rispetto a chi aveva seguito un percorso terapeutico “tradizionale”». Non solo il miglioramento della gravità dei sintomi per entrambi i gruppi è stato modesto, ma «sono anche emerse differenze tra i bambini che hanno partecipato allo studio residenti in Paesi diversi» - conclude Gold.
Alla luce di questi risultati (e di quelli di altri studi precedenti, che invece avevano fornito esiti più positivi) è dunque necessario ripensare alle domande specifiche che sono alla base delle indagini scientifiche sulla musica come cura, così come vanno considerati in modo più accurato e preciso gli attuali disegni di ricerca (research design). «Nel caso del nostro studio con i bambini autistici – continua Gold – ci possiamo chiedere in che modo l’ascolto della musica possa essere utile a questi soggetti, se per attenuare i tratti autistici o permettere di trovare il giusto contesto sociale per i bambini, dove i sintomi autistici sono accettati e compresi, invece di cercare di eliminarli». Proprio domande come queste (in che modo la musica possa aiutare le persone con autismo a partecipare alla vista sociale e culturale) sono inserite nel progetto di ricerca al quale sta lavorando Gold attualmente e che vede il coinvolgimento di solo due Paesi, per ora: Norvegia e Austria.
Un’ultima menzione va fatta e riguarda l’introduzione del machine learning, ovvero dell’utilizzo di algoritmi e dell’intelligenza artificiale per comprendere meglio la complessità (anche di intervento) dell’applicazione musicale in campo clinico. «Il suo utilizzo è certamente auspicabile - spiega Gold - così come lo è l’applicazione di statistiche e di metriche oggettive e replicabili. C’è chi sottolinea che la musica sia un’esperienza vissuta in modo personale e che ogni individuo abbia una relazione “unica” con la melodie e suoni, il che renderebbe inutile condurre studi coinvolgendo, in modo randomizzato, grandi numeri di soggetti. Invece, è proprio "testando" le ipotesi su molti pazienti che diventa possibile “gestire” la diversità. In generale, in campo clinico, solo nel momento in cui conosciamo com’è distribuita la popolazione di riferimento, siamo in grado di offrire cure targhetizzate e specifiche a ciascuno. Questo vale anche per le applicazioni terapeutiche con la musica» - conclude Gold.