neurocentro

I misteriosi intrecci fra il sonno
e la malattia di Parkinson

Mercoledì 30 novembre 2022 circa 5 minuti di lettura In deutscher Sprache

di Agnese Codignola

Salvatore Galati, responsabile del Servizio dei disturbi del movimento del Neurocentro della Svizzera italiana (foto di Chiara Micci / Garbani)
Salvatore Galati, responsabile del Servizio dei disturbi del movimento del Neurocentro della Svizzera italiana (foto di Chiara Micci / Garbani)

Sonno e malattia di Parkinson: cos’hanno a che vedere una funzione fisiologica essenziale e una patologia neurodegenerativa che si caratterizza soprattutto per la difficoltà di movimento e i tremori, prima di evolvere verso la perdita delle funzioni cognitive? Molto, in realtà, anche se non tutti gli aspetti di questa relazione sono chiari. È noto, infatti, che una delle prime avvisaglie del Parkinson è la compromissione del sonno, della sua durata e della sua integrità, così come si sa che l’insonnia caratterizza tutto il decorso della malattia, insieme all’impossibilità di restare fermi anche mentre si sogna.
Ma se le manifestazioni cliniche sono note da molti anni, assai meno chiaro è il quadro che le spiega, a livello di singole cellule nervose. Per questo Salvatore Galati, responsabile del Servizio dei disturbi del movimento del Neurocentro della Svizzera italiana, diversi anni fa ha intrapreso uno studio accurato che è partito dai suoi pazienti e, con un approccio che oggi viene definito traslazionale, è arrivato a fornire alcune spiegazioni dei meccanismi di base che sottendono le anomalie e, attraverso di esse, a ipotizzare nuovi approcci terapeutici.
«Per capire perché il sonno è così importante nelle patologie neurodegenerative - spiega Galati - è forse opportuno ricordare che cosa succede quando dormiamo. Per semplificare, si può dire che nelle ore di sonno il cervello eserciti una sorta di potatura delle connessioni nervose: elimina quelle superflue, e rinforza quelle importanti, come si è visto molto nettamente in alcuni test sui modelli animali. Nel Parkinson, i disturbi del sonno compaiono durante l’evoluzione della malattia e segnano il passaggio dalla forma iniziale a quella avanzata: via via iniziano a manifestarsi anomalie, interruzioni, frammentazioni e movimenti involontari detti discinesie che – è stato dimostrato – derivano da un eccesso di connessioni in alcune zone specifiche del cervello, quali quelle del nucleo striato e nei nuclei della base (le zone cerebrali più compromesse nel Parkinson) che regolano i movimenti. In altre parole, la malattia impedisce il normale sfoltimento delle connessioni e questo, a sua volta, si traduce in disturbi motori». 

Grazie all’elettroencefalogramma (EEG), chiarisce ancora il neurologo, è possibile quantificare lo sfoltimento delle connessioni, in particolare studiando quella parte che è nota come zona delle onde delta. «Nelle persone sane - sottolinea Galati - l’attività di tali onde è particolarmente elevata nelle fasi dell’addormentamento, e diminuisce via via che si dorme, fino a raggiungere il minimo nei minuti che precedono il risveglio. Rispetto a questo schema “normale”, i malati mostrano un’attività delta bassa già all’inizio del sonno. Lo si è visto nei modelli animali della malattia, e lo abbiamo visto noi su 13 pazienti con malattia iniziale, appena diagnosticata, o anche avanzata, ma senza discinesia (disturbi del movimento). I risultati di questo studio sono stati pubblicati sugli Annals of Neurology. Ciò che vogliamo capire - continua Galati - è se il calo delle onde delta nel sonno sia o meno legato a una diminuzione della formazione di nuove connessioni durante la veglia, a sua volta effetto della degenerazione delle cellule nervose. Quindi, c’è una minore plasticità, la formazione di meno connessioni, e tutto ciò si ripercuote nelle attività del sonno, con meno necessità di “ripulitura”.  Sempre per chiarire tale aspetto, e grazie a un finanziamento ottenuto dalla Synapsis Foundation, ci sarà anche un approfondimento sullo stato di veglia e, in particolare, sulla zona delle onde theta, che hanno un andamento opposto alle delta: vogliamo analizzare nel dettaglio le loro caratteristiche al mattino e dopo dieci ore».

La compromissione del sonno con caratteristiche elettroencefalografiche e cliniche specifiche (come la comparsa delle discinesie) può dunque segnalare che è in atto un malfunzionamento in alcune aree: un passo in avanti importante, cui ne potrebbero presto seguire altri. Spiega ancora Galati: «Nel 2022 abbiamo ricevuto un finanziamento di Parkinson Svizzera per verificare la possibilità di contrastare le conseguenze della neurodegenerazione con azioni specifiche sulle onde delta. Esistono già strumenti che riescono ad allungare le delta: sono caschetti morbidi, simili a cuffie da indossare quando si dorme, che registrano l’attività cerebrale ed entrano in funzione quando si raggiungono certi valori. A quel punto, il casco trasmette suoni specifici, a una frequenza d’onda di circa un hertz, che dovrebbero ampliare la zona delta. In tal modo – questa l’ipotesi di lavoro - i pazienti potrebbero attenuare le discinesie, aumentando il tasso di connessioni dissipate nel sonno. Nei prossimi mesi lo verificheremo su una quindicina di malati cui chiederemo di indossare la cuffia, che in metà dei casi emetterà i suoni previsti, nell’altra solo suoni di controllo».

Oggi il Parkinson si cura essenzialmente con la levodopa, un farmaco introdotto negli anni settanta. Da allora non ci sono stati progressi significativi dal punto di vista delle terapie. Per questo approcci innovativi come quello del Neurocentro potrebbero riservare molte sorprese, e in parte lo stanno già facendo.