IRSOL, missione spaziale bis
per catturare nuovi dati
sui campi magnetici del sole
Lanciato con successo un razzo della NASA a 300 chilometri di altezza, per un esperimento che vede coinvolto l’Istituto ricerche solari di Locarno. Risolto anche un "paradosso" scientifico che si trascinava da 25 annidi Elisa Buson
È sempre così: quando ti piace una fetta ne vorresti subito un’altra. E un’altra ancora. Che sia una torta o il Sole, la golosità è la stessa. Lo sanno bene gli "insaziabili" fisici dell’Istituto Ricerche Solari di Locarno (IRSOL), che dopo aver assaggiato una “fettina” di Sole con la missione spaziale CLASP-2 nell’aprile 2019, hanno deciso di gustarne altre ancora con la nuova missione lampo CLASP-2.1, lanciata con successo lo scorso 8 ottobre nell’ambito di una grande collaborazione internazionale che li vede in prima fila insieme a partner del calibro di NASA, Università di Stanford e Osservatorio astronomico nazionale del Giappone.
La missione CLASP-2.1 è stata preparata in tempi estremamente rapidi perché «si tratta di un “re-flight”, ovvero una ripetizione del precedente esperimento, di cui si è potuta riutilizzare buona parte della strumentazione», racconta Luca Belluzzi, capogruppo scientifico all’IRSOL. Anche stavolta si è trattato di spedire un razzo sonda della NASA fuori dall’atmosfera terrestre, a quasi 300 chilometri di altezza, per catturare in appena cinque minuti quanti più dati possibili sulla radiazione ultravioletta del Sole, custode dei segreti dei campi magnetici degli strati più esterni dell’atmosfera solare, dove nascono violenti fenomeni che rischiano di impattare anche sulla Terra.
Foto di Alfio Tommasini Guarda la gallery (10 foto)
Il lancio del razzo dalla base militare di White Sands, in Nuovo Messico, ha fatto penare non poco i partner europei della missione. «La pandemia ci ha messo lo zampino, perché a causa della chiusura delle frontiere Usa, molti di noi hanno dovuto rinunciare ad assistere personalmente al lancio, incluso il professor Javier Trujillo Bueno dell’Istituto di Astrofisica delle Canarie (IAC), uno dei responsabili dell’intero progetto, e in qualche modo il “padre” degli esperimenti CLASP. Per fortuna – osserva Belluzzi – è potuto volare oltreoceano un nostro collega dotato di passaporto americano, Ernest Alsina Ballester, che fino a febbraio ha lavorato con noi all’IRSOL mentre ora è in forza allo IAC di Tenerife». Una volta arrivato alla base, Alsina Ballester ha lavorato alacremente insieme ai colleghi americani per identificare le zone del Sole più interessanti (in termini di attività magnetica) sulle quali concentrare la missione. Lo strumento utilizzato per lo studio, lo spettropolarimento CLASP (Chromospheric LAyer SpectroPolarimeter), ha una piccola fenditura che permette di osservare una sottilissima fetta di Sole: con la missione CLASP-2.1 questa misurazione è stata ripetuta più volte, facendo tante piccole fettine vicine una all’altra, una scansione che permetterà di ottenere un’immagine bidimensionale.
Ai ricercatori tocca ora interpretare i segnali osservati nello spettro ultravioletto della luce solare, contenenti preziose informazioni sui campi magnetici dell’alta cromosfera, il sottile strato di transizione dell’atmosfera solare posto tra la fotosfera e la corona. Uno studio complementare a quello dei campi magnetici della bassa cromosfera, la cui analisi può essere condotta sfruttando segnali nello spettro visibile della luce solare, catturati da Terra e non dallo spazio con razzi sonda. Anche qui i risultati non mancano, come dimostra un importante lavoro appena pubblicato su Physical Review Letters (la prestigiosa rivista scientifica dell’American Physical Society) che ha consentito all’IRSOL di mettere il suo sigillo sulla soluzione di un mistero lungo un quarto di secolo.
Tutto è cominciato nel 1996, quando, grazie al lavoro pionieristico del professore Jan Olof Stenflo, un enigmatico segnale è stato scoperto in modo del tutto inaspettato analizzando la luce solare con il polarimetro ZIMPOL (Zurich Imaging POLarimeter) del Politecnico federale di Zurigo (ETH). «Si trattava di uno studio avveniristico, perché lo strumento permetteva per la prima volta di analizzare la polarizzazione della luce solare cogliendo segnali anche molto deboli con una precisione inedita», ricorda Belluzzi, che al tempo era ancora uno studente. Analizzando in maniera sistematica tutto lo spettro, è improvvisamente emerso un chiaro segnale alla frequenza di una particolare “riga” (una zona più scura dello spettro), chiamata D1, prodotta dagli atomi di sodio presenti nell’atmosfera solare. Tale segnale non sarebbe dovuto essere presente, almeno stando a una prima applicazione della teoria della meccanica quantistica: per questo motivo l’interpretazione della sua presenza ha suscitato immediatamente un vivace dibattito scientifico. La discussione è diventata ancora più accesa nel 1998, quando il professor Egidio Landi Degl’Innocenti ha pubblicato sulla rivista Nature una spiegazione del fenomeno che tuttavia implicava che la cromosfera fosse completamente non magnetizzata, in contraddizione con una serie di evidenze che invece indicavano come questa regione fosse permeata da campi magnetici. Si è generato così un paradosso che ha impegnato i fisici solari per molti anni, motivando esperimenti di laboratorio e portando alcuni di loro a chiedersi se la nostra comprensione della teoria quantistica dell’interazione tra materia e radiazione non fosse ancora incompleta.
Il primo passo verso la soluzione del mistero lo hanno fatto proprio Luca Belluzzi e Javier Trujillo Bueno nel 2013 allo IAC. «Eravamo riusciti a individuare un meccanismo alternativo che poteva spiegare la comparsa del segnale polarimetrico nella riga D1 del sodio senza incorrere nel paradosso, ma il modello che avevamo messo a punto era basato su ipotesi semplificatrici che non tenevano conto dei campi magnetici e dell’impatto delle collisioni fra atomi nell’atmosfera solare, due fattori che avrebbero potuto cancellare di fatto il segnale», spiega l’esperto. Alla base del nuovo meccanismo vi sono le piccole variazioni che le proprietà della luce solare mostrano su strettissimi intervalli di frequenza all’interno della riga D1, variazioni che in tutti i lavori precedenti era parso del tutto ragionevole trascurare. Intrigato dalla questione, nel 2017 Belluzzi ha proposto un nuovo progetto di ricerca al Fondo nazionale svizzero per la ricerca scientifica, in modo da poter continuare lo studio aggiungendo gli “ingredienti” mancanti: un compito arduo non solo dal punto di vista computazionale, ma anche teorico, che ha affrontato insieme ai colleghi Alsina Ballester e Trujillo Bueno. «Grazie a una perfetta coincidenza temporale, poco prima dell’avvio del progetto di ricerca, una collega francese, la dottoressa Veronique Bommier, ha elaborato una teoria sulla generazione della polarizzazione che ci ha permesso di mettere insieme tutte le tessere del puzzle, in modo perfettamente consistente e senza necessità di introdurre alcuna approssimazione. Abbiamo esultato quando abbiamo visto che tutti i calcoli tornavano, anche considerando campi magnetici e collisioni», ricorda Belluzzi. La pubblicazione dello studio ad agosto ha suscitato molte reazioni positive, perché «ora che conosciamo l’origine del segnale di polarizzazione nella riga D1, possiamo sfruttarlo per ricavare informazioni sui campi magnetici della cromosfera». Il paradosso introdotto da Landi Degl’Innocenti è ormai risolto, ma resta ancora da capire perché il segnale non è sempre uguale a se stesso ma si presenta ogni volta con profili un po’ diversi. «Abbiamo già delle ipotesi, ma ci aspetta ancora molto lavoro. I misteri della riga D1– conclude Belluzzi - non sono ancora finiti».