Un algoritmo per individuare
le cellule tumorali invecchiate
che alimentano le metastasi
Sulla rivista Nature Communications i risultati di uno studio condotto allo IOR di Bellinzona dall’équipe di Andrea Alimonti, che apre la strada a nuove terapie per cercare di prevenire le recidive dei tumoridi Elisa Buson
Ha i capelli bianchi? Porta gli occhiali? Indossa il cappello? Se avete giocato qualche volta a “Indovina chi?”, saprete benissimo che per azzeccare i personaggi disegnati sulle tessere bisogna definire il loro identikit in maniera precisa, individuando le caratteristiche uniche che li contraddistinguono. Si deve fare lo stesso anche quando si tratta di individuare una specifica tipologia di cellula tra le svariate presenti in un tumore. Riconoscere in particolare una cellula “invecchiata” dalle terapie, ancora viva sebbene incapace di riprodursi, è come trovare un ago nel pagliaio: un’impresa ardua ma cruciale, se si vuole impedire alla malattia di causare recidive e produrre metastasi. Un aiuto fondamentale può arrivare dalla bioinformatica e dall’intelligenza artificiale, come dimostra lo studio pubblicato sulla rivista Nature Communications dal team di Andrea Alimonti, direttore del gruppo di Oncologia molecolare all’Istituto Oncologico di Ricerca (IOR) di Bellinzona e docente all’Università della Svizzera Italiana (USI).
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«Molte delle attuali chemio e radioterapie non riescono a uccidere tutte le cellule tumorali: alcune invecchiano soltanto, diventando senescenti, ovvero incapaci di proliferare nonostante siano metabolicamente attive», spiega Alimonti. «Questo effetto può risultare utile in un primo momento, perché arresta la crescita del tumore, ma a lungo andare può creare seri problemi: se le cellule senescenti non vengono prontamente rimosse dal sistema immunitario, possono produrre delle molecole segnale che inducono le cellule circostanti a migrare e disseminarsi in siti secondari». Si generano così le metastasi, che si stima siano responsabili del 90% dei decessi di pazienti oncologici.
L’anno scorso il gruppo di ricerca di Alimonti ha dimostrato che è possibile disinnescare questa bomba a orologeria con un farmaco (Navitoclax) in grado di inibire BCL-2, una proteina “salvavita” che risparmia il suicidio (apoptosi) alla cellula colpita dalle terapie antitumorali. Col tempo, però, i ricercatori dello IOR hanno scoperto che il farmaco ha un’efficacia parziale solo su alcuni tipi di tumori e, a causa della sua aspecificità, può causare effetti collaterali. «Abbiamo capito che BCL-2 non era il bersaglio più adatto da colpire perché è espresso da meno del 50% delle cellule senescenti, che costituiscono una popolazione molto più variegata di quanto pensassimo», sottolinea Martina Troiani, ingegnere biomedico (una delle prime giovani ricercatrici a svolgere questo ruolo allo IOR) e dottoranda nel laboratorio di Alimonti.
Per vincere questa partita a “Indovina chi?” con il tumore, dunque, era necessario trovare altre caratteristiche che fossero davvero uniche per definire le cellule senescenti. Per sbrogliare la matassa, i ricercatori dello IOR hanno analizzato, una per una, oltre 4.000 cellule di tumore prostatico andando a vedere quali proteine esprimessero. La messa a punto di questo particolare tipo di analisi è stata fatta in collaborazione con il gruppo di Pietro Cippà all’Ente Ospedaliero Cantonale (EOC) e quello di Marco Bolis allo IOR e all’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri di Milano.
L’enorme mole di dati prodotta (grazie alla tecnica di sequenziamento dell’RNA messaggero nelle singole cellule, scRNA-seq) è stata data in pasto a un sistema di intelligenza artificiale, sviluppando così un algoritmo in grado di definire l’identikit delle cellule tumorali senescenti. Questo approccio ha creato delle opportunità senza precedenti per descrivere e caratterizzare queste cellule e ha facilitato l’identificazione dei loro punti deboli. «Abbiamo passato in rassegna una cinquantina di proteine che erano in qualche modo legate ai programmi di morte cellulare», racconta Troiani. «Dodici di queste erano associate alla senescenza ma solo una, la proteina MCL-1, era espressa in quantità più elevate in gran parte delle cellule tumorali invecchiate». La sua funzione è simile a quella di BCL-2, ma la sua specificità è decisamente superiore: colpire questo bersaglio significa avere maggiori garanzie di efficacia e sicurezza.
«Sapevamo che MCL-1 era un target già noto nella letteratura scientifica perché legato alla sopravvivenza delle cellule dei mielomi», afferma Manuel Colucci, biologo e dottorando nel laboratorio di Alimonti. «Abbiamo dunque provato a inibirlo farmacologicamente con tre molecole diverse, di cui un inibitore che sta per essere sperimentato sull’uomo contro le leucemie». Incoraggiati dai primi test su cellule di tumore prostatico coltivate in provetta, i ricercatori hanno provato anche a “spegnere” direttamente il gene MCL-1, ottenendo la morte delle cellule senescenti. «Siamo così passati a studiare il modello murino, ovvero topi a cui erano state iniettate cellule tumorali umane», continua Colucci. «Questi animali, trattati con farmaci chemioterapici (i taxani), hanno reagito bene in un primo momento, ma poi hanno sviluppato recidive, proprio come accade a molti pazienti. Abbiamo allora provato ad aggiungere la terapia contro le cellule senescenti, mettendo a confronto l’inibitore di BCL-2 con quello di MCL-1: dai risultati è emerso che i due farmaci frenano la crescita tumorale allo stesso modo, ma l’inibitore di MCL-1 riduce di cinque volte il rischio di sviluppare metastasi rispetto a quello per BCL-2».
Questo successo potrebbe accelerare la sperimentazione del farmaco come terapia adiuvante contro il tumore della prostata, ma non solo. «Intendiamo affinare ulteriormente il nostro algoritmo di intelligenza artificiale per applicarlo ad altri tipi di tumore in modo da scoprirne le vulnerabilità. Un simile strumento di ricerca – conclude Troiani - potrebbe risultare prezioso per combattere l’accumulo di cellule senescenti anche nelle malattie legate all’invecchiamento».