Un Film Festival "giovane"
per la magia dei temi scientifici
di Valeria Camia
Il cinema è uno degli strumenti più potenti per “comunicare la scienza” a un pubblico di non specialisti e, anche per questo, recentemente si è registrato un boom di richieste di film scientifici. Per soddisfare questa nuova domanda, università e istituti scientifici hanno iniziato a proporre corsi di cinematografia scientifica, e sempre più comunicatori e giornalisti scientifici vengono invitati nelle aule accademiche. Tutto ciò sta succedendo anche in Svizzera, dove da alcuni anni viene organizzato un Festival cinematografico proprio dedicato alla Scienza: si tratta del Global Science Film Festival, tenutosi quest’anno, oltre che a Zurigo e a Basilea, anche nella Svizzera italiana.
E così, chi si è trovato in Ticino, nell’aprile scorso, ha avuto modo di assistere, al cinema Lux di Massagno, alla proiezione di lungometraggi e cortometraggi professionali di natura scientifica e a tavole rotonde con registi, scienziati e studiosi. Il tutto “condito” da una particolarità (importante): il project manager del Festival è stato un giovane studente della Franklin University Switzerland (FUS), Aidan Farabow, che ha coordinato, assieme ai compagni di corso dell’università, l’evento.
Insomma, sette giovani poco più che ventenni sono stati capaci di coinvolgere la comunità ticinese e condividere storie di sostenibilità da tutto il mondo, creando uno spazio - il Festival - in cui le persone si sono riunite e hanno potuto affrontare questioni di natura ambientale, economica o sociale. Di “magico”, in tutto questo, non c’è nulla - e non ci si aspetta diversamente, parlando di scienza. C’è invece “una presenza”: tutti i giovani coinvolti nella realizzazione del Festival hanno frequentato un corso di videomaking scientifico proposto dalla giornalista Elettra Fiumi. E proprio sotto la guida di Fiumi, che è anche regista e produttrice di documentari nei quali le scoperte medico-scientifiche e le innovazioni tecnologiche fanno spesso da protagonisti, è stata possibile la realizzazione dell’edizione luganese del Global Science Film Festival.
Italo-americana, figlia d’arte (il padre, Fabrizio Fiumi, fu co-fondatore del Gruppo di architettura radicale 9999), cresciuta tra il pensiero analitico anglosassone, che seziona e sviscera le questioni nei singoli dettagli, e un approccio “sintetico” - europeo - ai problemi, il cui esame è sempre inserito in una prospettiva più globale, Elettra Fiumi vive tra Lugano (dove ha fondato Fiumi Studios e insegna appunto alla Franklin University Switzerland) e “il mondo”, in prima linea là dove ci sono storie di scienza da raccontare. Portano, ad esempio, la sua firma le riprese di un intervento innovativo al pancreas eseguito presso l’Ospedale Civico di Lugano («avevo previsto di fermarmi un paio d’ore con i medici, e invece sono stata per oltre otto ore con loro»).
Quando incontriamo Fiumi, lo facciamo per chiederle di parlarci delle sfide e delle “gioie” della comunicazione scientifica oggi. Temi non facili da sviscerare in breve tempo... Forse anche per questo la conversazione con la regista parte da lontano. «Mi sono formata alla Columbia University - spiega Elettra Fiumi - dove ho studiato giornalismo, e uno dei miei primi passi nel mondo della comunicazione l’ho svolto rivestendo la funzione di fact-checker, che è la figura professionale responsabile per la verifica delle informazioni e dei contenuti costitutivi degli articoli da pubblicarsi su riviste e giornali».
Quale spazio occupa oggi il fact-checking nel processo che la porta alla realizzazione di un documentario scientifico?
«Raccolgo quante più informazioni possibili sul tema oggetto del documentario o del video che ho scelto di sviluppare e cerco di intervistare quante più persone possano contribuire a offrire angolature e contenuti diversi per comprendere il tema ad oggetto della mia produzione. Ma questo non basta. Tutto, dai dati alle dichiarazioni degli esperti e dei miei contatti, va verificato. E selezionato, naturalmente. Ogni volta intervisto molte persone, per poi includere nel mio documentario solo una minima parte delle testimonianze raccolte, le più significative. Le seleziono. Identificare le persone adeguate per approfondire un tema o a darne una testimonianza, però, è un processo tutt’altro che immediato».
Ci può raccontare alcune situazioni in cui si è dimostrato difficile raccogliere il materiale di base per video scientifici?
«Recentemente stavo girando un documentario con un’intervista a una coordinatrice della donazione di organi in Svizzera: è stato complicato trovare un donatore disposto a parlare della propria scelta, o un familiare di una persona che era in procinto di donare un organo. Anche entrare in relazione con gli specialisti di un certo settore e comunicare con chi si occupa di problemi astratti, come i matematici, può rappresentare una sfida. Questo è stato il caso del progetto “Math Geniuses", commissionato dall’Unione Matematica Internazionale (IMU) e realizzato in collaborazione con la Simons Foundation e con la California Story Company, la casa di produzione guidata dal pluripremiato regista americano John Hubbell. Invitata a realizzare una serie di profili dei candidati premiati all’edizione 2022 del Congresso Internazionale dei Matematici, ho speso parte del progetto proprio a cercare chiavi di lettura per rendere accessibile l’intelligenza straordinaria di queste persone».
Tanta curiosità, ricerca, verifica, attenzione ai dettagli: alla fine cosa si vuole lasciare al pubblico?
«I video, lungometraggi o film hanno la capacità di catturare e trasmettere emozioni ed esperienze in un modo che altri mezzi non possono fare; inoltre a partire dal singolo individuo o evento narrato, i documentari sulla scienza offrono la possibilità, idealmente, di generalizzare, e quindi di avere un impatto sociale. È stato, questo, il caso del progetto Radical Lanscapes, che ripercorre il lavoro dell’architettura d’avanguardia nell’Italia degli anni Settanta e porta l’attenzione alla relazione (spesso problematica) tra ambiente e tecnologia».
Dagli anni Settanta, tornando all’oggi, il mondo digitale. Internet e i social: un’opportunità, o principalmente una sfida per chi è impegnato a produrre documentari e video scientifici?
«Oggi la comunicazione digitale è un anello centrale che deve essere incluso nel piano comunicativo di chiunque voglia raggiungere un pubblico quanto più vasto possibile. Al tempo stesso, lo sappiamo bene, il web è caratterizzato da velocità e brevità. Instagram e altri social media pullulano di contenuti che richiedono un’attenzione da parte del fruitore molto limitata nel tempo, a discapito della profondità e talvolta della correttezza delle informazioni. Siamo sempre più abituati a “pillole” di informazione. Questo aspetto è certamente una sfida per chi produce video e documentari scientifici, che richiederebbero, invece, tempi di approfondimento stridenti con la generale fruizione delle informazioni quotidiane. Questo rappresenta, però, anche un’opportunità, là dove si è in grado di realizzare brevi video e spot per il web tali che siano in grado di catturare l’attenzione di chi li guarda, suscitare emozioni, spingendo nel conempo ad approfondire i temi discussi».
Si tratta dunque di promuovere la curiosità e al tempo stesso la capacità del fruitore dei contenuti di “agire” su quanto visto?
«Sì, in inglese utilizziamo il termine agency, che è proprio la capacità consapevole e critica di agire. Una delle primissime occasioni in cui ho percepito forte la spinta verso l’agency e sentito crescere il desiderio di promuovere, con il mio lavoro, l’azione, si è presentata in occasione del Women’s March del 2016 negli Stati Uniti sotto la presidenza Obama. A marciare c’era anche una bambina di otto anni, Mari Copeny, soprannominata dai media come “Little Miss Flint”, che aveva deciso di partecipare alla manifestazione per protestare contro quella che possiamo definire una vera crisi sanitaria nel suo Paese, l’inquinamento del fiume Flint in Michigan, così grave da rendere non potabile l’acqua, e nemmeno utilizzabile per lavarsi. Ecco, ricordando la forza e la consapevolezza ambientale di Little Miss Flint, nei miei progetti a contatto con i giovani, in particolare con gli universitari, lavoro per suscitare in loro la curiosità e la voglia di fare domande, approfondire, controllare le informazioni raccolte, così come comunicare in modo adeguato - a tempi e circostanze - e creare dibattiti o comunque interesse nell’interlocutore. Concretamente, i semi di questo lavoro sono stati visibili in occasione del Global Science Film Festival».
Ecco, il Global Science Film Festival. È troppo presto per tracciare un bilancio, soprattutto per quello che riguarda i ragazzi?
«Posso dire che, indubbiamente, i giovani si sono sentiti importanti e soprattutto “agenti”, chiamati in prima persona a organizzare i panel di discussioni, contattare gli invitati, prepare domande per gli esperti e registi, scrivere follow-up e comunicati stampa per condividere l’evento con un audience che va oltre il mondo della scienza e coinvolge o interessa il pubblico in genere. Gli studenti si sono potuti impegnare con la comunità locale (la città di Lugano), ma anche con la comunità di registi, scienziati e studiosi, che nei film proiettati hanno raccontato problemi e sfide globali legati alla sostenibilità».