PROSPETTIVE

Cure palliative non solo
per i malati terminali, ma sempre, quando c’è dolore cronico

Venerdì 6 maggio 2022 circa 11 minuti di lettura In deutscher Sprache

Dalla quinta Giornata cantonale per le cure palliative, organizzata dall’Associazione “palliative ti”, un appello per considerare in modo diverso, e più ampio, le terapie che permettono di ridurre le sofferenze
di Agnese Codignola

L’hanno intitolata Il caleidoscopio delle cure palliative, un nome che riassume alla perfezione la complessità di un settore che da alcuni anni sta cambiando forma e natura, e si sta spingendo molto al di là della palliazione del dolore per i malati terminali, soprattutto oncologici. Perché oggi si ha maggiore consapevolezza del fatto che molte patologie comportano dolore anche cronico, e prenderne atto e trattarlo prima che diventi esso stesso una malattia è considerato, oltreché doveroso, anche remunerativo, poiché evita costi più elevati in terapie, perdite di giornate di lavoro, riabilitazioni e peggioramenti del quadro clinico. E infatti proprio l’evoluzione della disciplina è stata al centro della quinta Giornata cantonale per le cure palliative, organizzata dall’Associazione “palliative ti” , che si è svolta al Palazzo dei congressi di Lugano il 3 maggio: un incontro che ha restituito un quadro fedele delle molte sfumature che, nel loro insieme, aiutano a comprendere meglio che cosa siano, oggi, queste terapie.

Le cure palliative, ormai, non rappresentano solo la parte finale del percorso di cura contro un tumore, cui si ricorre quando la malattia ha preso il sopravvento, sospendendo le terapie più aggressive per garantire al paziente l’assenza o la riduzione del dolore. Piuttosto, sono o dovrebbero essere parte integrante di moltissimi iter terapeutici per le più svariate patologie, e dovrebbero accompagnare il malato fin dall’inizio di qualunque schema terapeutico, qualora ve ne sia la necessità. Così la pensa una buona parte della comunità scientifica, che da qualche anno discute sul concetto allargato, e cerca di fare pressione perché entri nelle programmazioni sanitarie in modo diverso da quanto avvenuto finora. Ciò comporta anche molte difficoltà, come ha sottolineato uno dei relatori, Massimo Costantini, responsabile dell’Unità di Cure Palliative dell’Arcispedale Santa Maria Nuova di Reggio Emilia, un ospedale da 900 posti letti che risulta sempre nella parte alta delle classifiche mondiali sulla qualità dell’assistenza. Costantini ha raccontato di come sia possibile creare reti di collaborazione con virtualmente tutti i reparti di un grande policlinico, cercando di assicurare a ogni paziente il percorso più adatto. «Non è facile seguire sempre linee guida predefinite - ha spiegato - perché ogni paziente ha una sua storia clinica e una sua tipologia di dolore, che dipende dal tipo di malattia e dalle condizioni generali». 

Oltre alle difficoltà legate all’impossibilità di avere schemi terapeutici rigidi, ce n’è poi un’altra, strutturale: mancano linee guida, proprio perché fino a poco tempo fa non c’era molto interesse ad approfondire queste tematiche da parte di chi finanzia la ricerca, e perché era ed è molto complicato effettuare questi studi sul campo. Uno dei risultati è sotto gli occhi di tutti: da anni non ci sono progressi significativi dal punto di vista farmacologico, nonostante si stiano cercando da tempo alternative convincenti. Alcune molecole che sfruttano circuiti diversi rispetto a quelli degli oppiacei, come quelle che vanno sui canali ionici, così come approcci fisici, che mirano a interferire con la trasmissione nervosa del dolore, sono allo studio, ma la loro applicazione è ancora limitata. Nel frattempo si cerca di utilizzare nel modo più efficace possibile i farmaci attualmente disponibili, come gli oppioidi, evitando le applicazioni eccessive, o improprie, che spesso portano a risultati opposti a quelli previsti, come rivela uno studio pubblicato alcune settimane fa sulla rivista scientifica Jama Internal Medicine.
Anche per questo Costantini ha incentrato la sua relazione sulla necessità di tenere sempre insieme assistenza, ricerca e formazione del personale, cruciale in una materia che cambia e che può assumere così tante declinazioni.

ATTENZIONE ALLE DIVERSITÀ CULTURALI - La flessibilità, del resto, è necessaria, per situazioni che sempre più spesso escono dagli schemi più convenzionali, e sfidano i professionisti, per esempio, a curare persone che arrivano da altri Paesi, e che hanno vissuti di lingua, religione e cultura diversi da quelli del Paese in cui vengono curate, così come persone omosessuali o transessuali, le cui specificità devono essere tenute nella giusta considerazione.
Di questo ha parlato lo psichiatra e pediatra italiano Marco Mazzetti, presidente della Società Italiana di Medicina delle Migrazioni, con una relazione intitolata “La sensibilità transculturale nella comunicazione con il paziente”. Mazzetti, che è partito dalle definizioni di cultura, di identità culturale così come da quella di “Illness”, che delinea la percezione soggettiva della malattia, distinta da quella di “Disease”, che chiama in causa la definizione scientifica e misurabile di una patologia, ha subito messo in evidenza come le differenza nell’interpretazione della realtà possano costituire una barriera nella comunicazione tra medico e paziente, un ostacolo che può condizionare tutto il percorso ancora prima di entrare in esso.
Per evitare che tale discrasia ponga le basi dell’incomprensione, esistono griglie comunicative che aiutano il medico a interloquire con il paziente, mettendo al centro la sua esperienza, ovvero i fatti, e come sono stati vissuti. La griglia tiene presente i cinque livelli della comunicazione: prelinguistico, linguistico, metalinguistico, culturale e metaculturale, e si applica anche alla concezione di salute, che può variare nelle differenti culture.

LA NARRAZIONE - Ai primi due interventi ha fatto seguito quella che è stata definita una “narrazione”: Ivo Lizzola, docente di pedagogia sociale e di pedagogia della marginalità e della devianza all’Università di Bergamo, ha infatti raccontato, in forma di monologo, “il lascito di una disabilità irriducibile – storie di vita nell’handicap”, un racconto toccante della ricchezza spesso imprevista associata alla disabilità.

I PREGIUDIZI - Orest Weber, psichiatra di Losanna, ha invece richiamato l’attenzione su un altro dei fattori non sempre considerati, ma che in realtà possono condizionare tutto l’approccio al paziente, soprattutto quando questo sia di una comunità o di un Paese diverso da quello di chi eroga la cura: i pregiudizi, gli stereotipi, che rappresentano la base per rendere concrete le discriminazioni.
Gli stereotipi – va sempre ricordato – sono presenti sia in chi cura, sia in chi chiede aiuto. E le loro conseguenze sono molto più incisive di quanto si potrebbe pensare: per esempio, possono provocare ritardi, mettere in discussione la coesione del gruppo dei curanti, creare incomprensioni con i caregiver (soprattutto, con i familiari di riferimento), inibire una comunicazione sincera e così via, cioè arrecare danni che, in un ambito come quello delle cure palliative, possono essere molto gravi. Come si può cercare di contrastarli? Innanzitutto, ha sottolineato Weber, parlando il più possibile, verbalizzando i propri dubbi e mettendoli a confronto con l’interlocutore. E poi cercando di tenere sempre presente il peso che i pregiudizi possono avere nelle proprie valutazioni.

LA SESSUALITÀ - Di pregiudizi, del resto, ha parlato anche Mathieu Turcotte, infermiere presso il MScSI (Master ès Sciences en sciences infirmières), docente presso l’Institut et Haute Ecole de la Santé La Source di Losanna e attivista, che ha affrontato il tema della sessualità non binaria in un intervento intitolato: “Prendersi cura delle persone anziane, lesbiche, gay, bisessuali e trans”. Secondo Turcotte, ci sono cinque elementi da tenere a mente: il primo è il contesto, che si riflette nelle norme sociali, comportamentali e biologiche, ideate originariamente per una popolazione di malati per lo più caucasici, benestanti ed eterosessuali, cioè in una società molto diversa da quella attuale, estremamente più sensibile alle discriminazioni delle minoranze, ma che deve ancora trasformare la sensibilità in norme e linee di comportamento. Il secondo sono le sfide che affrontano ancora oggi le persone LGBT: emarginazione, discriminazione, rifiuto da parte della famiglia, omotransfobia, con conseguenti disturbi mentali, suicidi e abuso di sostanze, impossibilità di matrimonio e altro. Il terzo elemento è la paura, che le spinge molto spesso a non parlare della propria esperienza né dei propri problemi, e le rende restie a rivolgersi ai servizi esistenti. Il quarto aspetto è quello delle possibili soluzioni, che passano da una presa di coscienza, cui segue la ricerca di sostegno, l’interazione con la propria comunità. Infine, gli strumenti. Secondo Turcotte, in molti Paesi ormai non mancano, ma non sempre sono utilizzati al meglio: ci sono infatti decine di linee guida delle società scientifiche che non vengono recepite, e centinaia di associazioni, fondazioni e movimenti che spingono per un cambiamento prima di tutto sociale, ma non sempre trovano il giusto ascolto.

I MIGRANTI ANZIANI - L’ultimo intervento della giornata è stato quello di Claudio Bolzman, sociologo e docente ordinario presso la Haute Ecole Spécialisée de Suisse Occidentale di Ginevra, dedicato a “Vivere e morire altrove – prendersi cura delle popolazioni migranti anziane”. Anche in questo caso, per capire è necessario tenere sempre a mente il contesto: nel solo 2020, la popolazione di migranti anziani è aumentata del 10%, e la tendenza, che era già all’aumento, non potrà che subire un’accelerazione, con l’arrivo dei profughi ucraini, molti dei quali anziani e malati. Ciascuno dei migranti anziani, di ogni nazionalità, porta con sé il proprio bagaglio e il proprio percorso: alcuni sono in Svizzera da molti anni e quindi invecchiano in un sistema che conoscono e dove hanno radici e relazioni; altri vi arrivano già anziani o per farsi curare, o per raggiungere familiari, o per decisioni prese dopo il pensionamento. Da questo punto di vista, l’aggettivo caleidoscopica per descrivere la situazione è quantomai azzeccato. Il problema principale è l’inclusività, ossia come cercare di comprendere nei percorsi di cura il maggior numero possibile di anziani stranieri, tenendo presente la loro singolarità ma, anche, l’appartenenza a una comunità (che non deve essere mai un’astrazione frutto di una generalizzazione, come “i cinesi”). La prospettiva deve essere sempre empatica e rispettosa, e deve servirsi del dialogo per colmare le possibili lacune, per esempio sulle abitudini o sui vincoli religiosi e culturali verso certe pratiche mediche. Si deve poi sempre ricordare che il migrante vive comunque un trauma, una perdita di controllo, un senso di abbandono ed è quindi generalmente più vulnerabile, nel momento della malattia, come ben si vede nel caso dei profughi ucraini. Secondo un recente articolo della rivista scientifica Lancet dedicato all’Ucraina, sono oltre 3,8 milioni coloro che hanno interrotto cure di vario tipo, anche oncologiche, e una parte di loro è riuscita ad andare all’estero. Ma in che condizioni? Quasi mai i pazienti portano l’indispensabile documentazione sanitaria che illustri il percorso interrotto. Quando lo fanno, di solito è in lingua ucraina, fatto che implica la disponibilità di servizi di traduzione molto accurati e specialistici. Oltre a ciò, le cure cui erano sottoposti i malati in patria non necessariamente sono disponibili in altri Paesi, anche se quasi tutti gli stati europei hanno affermato, fin dai primi giorni del conflitto, di essere pronti all’accoglienza anche dei malati. La realtà, però, si sta rivelando diversa, perché assistere migliaia di nuovi pazienti complessi con i sistemi sanitari già in affanno per recuperare lo spazio perduto con la pandemia, e inserirvi persone dall’incerta situazione burocratica, oltreché traumatizzate e fragili, rende tutto assai complesso, a volte difficile. 

Anche la preparazione alla morte deve essere quantomai rispettosa della dignità e dei valori del malato e della sua famiglia. Fondamentale, nei momenti finali, la messa a disposizione di interpreti, mediatori, ministri religiosi e l’interazione con personale formato. Tutto ciò, naturalmente, è costoso, e richiede procedure che spesso escono dagli schemi.

IL RAPPORTO FRA COSTI E BENEFICI - Luca Crivelli, direttore del Dipartimento di economia aziendale, sanità e sociale della Scuola Universitaria Professionale della Svizzera Italiana (SUPSI), ha infine affrontato aspetti economici delle cure palliative, spesso poco considerati ma, in realtà, cruciali. La palliazione andrebbe infatti sempre valutata in base a un principio fondamentale: quello del rapporto tra costo e opportunità. In altre parole, bisognerebbe sempre valutare se un certo intervento - nel caso specifico, per persone che spesso sono avviate alla fine della loro vita - costituisca uno spreco di denaro o, piuttosto, un investimento. Dopo una dettagliata panoramica sui costi del fine vita in Svizzera, della loro variabilità in base alla regione, al luogo del decesso, all’andamento dell’ultimo anno di vita, Crivelli ha illustrato un’analisi costo-beneficio delle cure palliative, mostrando come fossero stati spesi 231 milioni per assistere 2.730 persone alla fine della loro esistenza. Da qui la domanda cruciale: che cosa sarebbe avvenuto se le cure palliative fossero state iniziate molto prima, a casa? La risposta è contenuta in diversi studi realizzati dallo stesso Crivelli e da altri esperti, e confermato da analisi del gruppo Cochrane dedicato: si sarebbe speso molto di meno per quanto riguarda ogni giorno di degenza e le cure, e soprattutto si sarebbe allungata la sopravvivenza dei malati, assicurando loro anche una qualità di vita superiore. Da qui la valenza etica di una scelta che però, appunto, è anche conveniente dal punto di vista economico. E anche questa è una delle visioni del caleidoscopio delle cure palliative.