Come si racconta la Scienza? Prima regola: non avere certezze
Mai come in questo periodo di pandemia è diventata importante la comunicazione delle notizie "tecniche", biomediche, e la loro traduzione. È un cammino essenziale, ma pieno di ostacoli. Ne abbiamo parlato con il divulgatore Fabio Melicianidi Agnese Codignola
Tra ricercatori e docenti, all’Università della Svizzera italiana c’è spazio anche per chi, di mestiere, la scienza non la fa, ma la racconta, grazie a una formazione a cavallo fra mondi e saperi solo apparentemente lontani. È Fabio Meliciani, un filosofo laureato in logica e filosofia della scienza all’Università di Firenze, che si è in seguito specializzato in comunicazione della scienza presso la Scuola Internazionale di Studi Avanzati (SISSA) di Trieste e che, dopo varie esperienze in musei e festival scientifici, è approdato, una decina di anni fa, in Ticino.
Da allora Meliciani ha lavorato in ogni ambito della comunicazione della scienza: dai quotidiani alle case editrici, passando per festival, trasmissioni radiotelevisive, e poi come collaboratore scientifico de L’ideatorio. Comunicare la scienza significa, soprattutto, aiutare i ricercatori ad aprire le porte di quella torre d’avorio dove tradizionalmente restano spesso asserragliati, per trovare con loro il modo migliore per raccontare a tutti il senso di un’attività che, soprattutto quando è di base, non è immediatamente comprensibile da parte del grande pubblico, ma che invece andrebbe sempre spiegata, e soprattutto capita nei suoi elementi fondamentali. Perché la ricerca e la scienza sono parti fondanti della società, e non corpi avulsi da essa. E la vicenda del Covid-19, così come altre questioni negli anni scorsi (si pensi, per esempio, ai vaccini, o agli OGM), dimostrano ogni giorno quanto questo sia vero.
Nel tempo, la sensibilità tanto della comunità scientifica quanto della società in generale è cambiata, e oggi entrambe fanno molti più sforzi – rispetto a qualche anno fa - per parlare la stessa lingua, anche sfruttando strumenti e mezzi nuovi, prima considerati assai lontani dalla comunicazione istituzionale, per esempio degli atenei. Spiega Meliciani: «Quando ho iniziato a lavorare all’USI, qui (come nella maggior parte degli ambienti accademici) non c’era ancora grande consapevolezza di quanto fosse importante comunicare correttamente alla società quanto si faceva. Per raccontare i propri progressi, si pensava, l’unica sede opportuna erano le pubblicazioni scientifiche, che hanno un proprio codice, dove gli addetti ai lavori capiscono senza bisogno di tante mediazioni. Ma le cose sono cambiate: il contesto e il modo di comunicare si sono evoluti - continua Meliciani - e si è iniziato a comprendere sempre di più che se la società non conosce correttamente quanto avviene nei laboratori, possono nascere pericolosi fraintendimenti, prese di posizioni basate su informazioni errate e quindi, non di rado, solo su convincimenti ideologici e che, in casi estremi, si può arrivare a una contrapposizione quando non a una vera e propria ostilità. I ricercatori stessi oggi partecipano alla comunicazione, soprattutto attraverso i social media. Ma questo comporta dei rischi, perché quasi sempre non ci sono intermediari, e sovente i ricercatori non hanno la percezione delle conseguenze di quanto comunicano. È insomma un mondo assai complesso, un universo in evoluzione. Resta il fatto che, in ultima istanza, è la società che finanzia la ricerca, e quindi ha tutti i diritti di essere informata».
In Svizzera, anche grazie a realtà come Science et Cité, negli ultimi anni i ricercatori hanno iniziato a partecipare più attivamente alle iniziative rivolte al pubblico, e ad accettare la formazione proposta dagli specialisti della comunicazione, molto spesso necessaria, almeno nei suoi rudimenti, per imparare i principi fondamentali della divulgazione scientifica, molto diversi da quelli della comunicazione tra pari.
In questo cammino, volto a creare uno spazio di dialogo e condivisione sempre maggiore fra la comunità scientifica e la società, Meliciani e coloro che si occupano di questo hanno assunto sempre più un ruolo di veri e propri mediatori culturali. Perché la scienza prima di tutto è cultura, e può quindi essere raccontata con forme e approcci molto diversi da quelli tradizionali, più partecipativi e coinvolgenti. «Non basta che i ricercatori espongano il loro lavoro - spiega ancora Meliciani. - Servono approcci che si basino sempre più sul dialogo e la condivisione; serve costruire ponti e connessioni tra saperi. Inoltre è indispensabile che tutti abbiano familiarità con la scienza, che la considerino come un qualcosa non da temere, ma cui dare fiducia, e serve che tutti ne colgano gli aspetti più positivi, quali la continua sollecitazione alla nostra curiosità, i grandi interrogativi, lo stupore delle scoperte e così via».
In questi giorni di emergenza-pandemia si vede bene quanto sia importante capire gli aspetti principali di un argomento scientifico (per esempio, sapere che cos’è un virus) e avere accesso a fonti affidabili di informazioni: la vicenda del Covid-19 è oggetto di continue fake news, che nulla hanno a che vedere con ciò che si sa, e si sta imparando, su questo pericoloso microrganismo.
Spiega Meliciani: «In queste settimane abbiamo sentito così tanti pareri da parte di esperti di ogni tipo che la sensazione finale è quella di una grande e inutile confusione nella quale è arduo distinguere le poche informazioni essenziali che dobbiamo e vogliamo avere. Mi sentirei di consigliare una sola cosa: il silenzio, interrotto solo, senza eccedere, dalla consultazione di fonti attendibili, lasciando perdere tutto ciò che non lo è e che alimenta solo idee assurde, complotti, teorie strampalate che possono in ultima analisi arrecare gravi danni alla salute». Ma c’è un’altra lezione che si può già oggi ricavare dai tempi del tutto inediti che stiamo vivendo (e che saranno con ogni probabilità oggetto di studi per molti anni anche da questo punto di vista). «Tutti abbiamo assistito e assistiamo ogni giorno ad aggiustamenti di tiro sul Covid-19 - spiega il comunicatore. - Per esempio, su quanto resiste sulle superfici, sui farmaci e i vaccini in sperimentazione, sul ruolo degli asintomatici e così via. Questa incertezza dipende dal fatto che l’umanità non è mai entrata in contatto con esso, e le informazioni che abbiamo sono dunque parziali, imperfette, basate su casi simili del passato, e su valutazioni statistiche. Ma tutto ciò riflette anche, in modo macroscopico, la natura stessa della scienza, la sua vera essenza: l’imperfezione, e la perfettibilità. Non esistono quasi certezze in ambito scientifico, perché anche quelle che oggi sono ritenute tali domani possono essere messe in discussione. Dobbiamo imparare a navigare in un oceano d’incertezze, diceva già vent’anni fa il grande sociologo francese Edgar Morin. Partiamo dalla meraviglia che suscita un cielo stellato per cogliere la complessità di questo mondo, per affrontare questo senso d’incertezza, che ci fa un po’ paura, con cui dobbiamo convivere, deframmentando, per quanto possibile, una conoscenza sempre più parcellizzata, divisa. Ecco, queste sono le chiavi che ci aprono ogni giorno le porte del nostro lavoro di comunicatori, per comprendere la scienza e alla fine anche noi stessi. Ed è per questo che la scienza continua ad affascinarci, perché parla di noi, del mondo in cui viviamo. Non smetterà mai di stupirci, e di aiutarci a progredire, a vivere meglio, se solo sapremo guardarla con il giusto sguardo».