oncologia

Batteri geneticamente modificati per “sabotare” i tumori
e potenziare l’immunoterapia

Mercoledì 2 febbraio 2022 circa 5 minuti di lettura In deutscher Sprache

Sulla rivista Nature i risultati di uno studio condotto dall’équipe di Roger Geiger all’Istituto di ricerca in biomedicina di Bellinzona. Utilizzati microrganismi che riescono a insinuarsi fra le cellule malate 
di Elisa Buson

Nella lotta ai tumori abbiamo nuovi alleati davvero insospettabili: i batteri. Siamo abituati a distinguerli in “buoni” e “cattivi”, a seconda del loro effetto sulla nostra salute, ma in realtà, grazie alla biologia sintetica, oggi inizia a profilarsi anche una terza categoria: quella dei batteri “intelligenti”. Sono microrganismi innocui per l’uomo che vengono geneticamente modificati per diventare veri e propri sabotatori di tumori, capaci di insinuarsi tra le cellule malate e trasformare i loro rifiuti in benzina per il sistema immunitario. Un’astuta strategia che è stata sperimentata con successo all’Istituto di ricerca in biomedicina (IRB, affiliato all’Università della Svizzera Italiana) nel laboratorio guidato da Roger Geiger, che grazie ai suoi meriti scientifici è da poco entrato a far parte del programma Young Investigator della European Molecular Biology Organization (EMBO). Lo studio, condotto per ora su modelli animali, è stato coronato dalla pubblicazione sulla prestigiosa rivista Nature e lascia presagire importanti sviluppi per le cure anticancro.

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L’obiettivo è quello di potenziare gli effetti dell’immunoterapia, che agisce risvegliando il sistema immunitario: pur essendo efficace contro diversi tipi di tumore, purtroppo non funziona in tutti i pazienti. Spesso ciò accade perché i guardiani del sistema immunitario, le cellule T, si trovano a combattere in condizioni molto difficili e senza adeguati rifornimenti. Per rifornirli di vettovaglie, si è pensato di sfruttare la capacità che hanno alcuni batteri di “colonizzare” i tumori. Tra le cellule malate, infatti, si crea un ambiente povero di ossigeno che costituisce una nicchia ideale per alcuni microrganismi che vivono in condizioni anaerobiche. Non a caso «i tumori contengono un microbioma diverso da quello che caratterizza gli organi sani - afferma Geiger. - Proprio questi batteri che si insediano nei tumori possono essere usati come piattaforme da ingegnerizzare per interferire con l’ambiente tumorale generando un effetto terapeutico».

L’intuizione di usare i batteri come armi anticancro risale addirittura alla fine dell’Ottocento, quando il medico e chirurgo statunitense William Coley osservò per primo la completa eradicazione di un sarcoma cervicale in seguito a un’infezione acuta da streptococco. Partendo da questa scoperta, mise a punto una miscela contenente tossine di origine batterica nell’intento di attivare il sistema immunitario contro il tumore. «Sebbene questa terapia si sia rivelata inefficace e piuttosto dannosa, le prime osservazioni di Coley hanno dimostrato che i batteri possono vivere all’interno dei tumori e scatenare una risposta immunitaria contro di essi», sottolinea l’esperto dell’IRB. «Oggi sappiamo che diversi batteri, patogeni e non, si accumulano preferenzialmente nei tumori e possono avere un’azione antitumorale: tra questi ci sono la Salmonella, la Listeria, il Clostridium e lo Streptococco. Siccome la somministrazione di batteri patogeni ha effetti tossici inaccettabili, attualmente la maggior parte delle strategie anticancro si basa su batteri non patogeni».

I ricercatori dell’IRB, in collaborazione con l’azienda Synlogic di Cambridge (Usa), hanno puntato in particolare sul ceppo di Escherichia coli Nissle 1917 (EcN), che è del tutto innocuo e da tempo utilizzato per la produzione di farmaci e vaccini. I batteri sono stati geneticamente modificati in laboratorio in modo da renderli capaci di convertire un prodotto di scarto delle cellule tumorali (l’ammoniaca) in un metabolita immunomodulante (L-arginina) che aumenta le funzioni antitumorali delle cellule T. Iniettati nei topi, sono andati subito a colonizzare il tumore, favorendo l’infiltrazione delle cellule T e potenziando l’efficacia dell’immunoterapia (basata in questo caso sulla somministrazione di anticorpi che bloccano la proteina PD-L1).

Questa strategia è risultata efficace nei cosiddetti tumori “caldi”, quelli che presentano segni di infiammazione dovuti a una preesistente risposta delle cellule T, mentre non sembra funzionare nei tumori “freddi”, quelli cioè che non suscitano una reazione immunitaria. «Quando abbiamo provato a indurre una risposta immunitaria nei tumori freddi iniettando cellule T specifiche – racconta Geiger – la terapia con i batteri è risultata nuovamente efficace, potenziando la risposta immunitaria di base. Considerando questi risultati pre-clinici, è possibile che i pazienti con tumori caldi o immunogenici (come il melanoma, il tumore del polmone non a piccole cellule e il tumore del colon con instabilità dei microsatelliti) possano rispondere alla terapia con batteri».

Prima di arrivare alla sperimentazione sull’uomo, però, restano ancora diversi problemi da risolvere, in primis quello della sicurezza. Finora è stato dimostrato che l’iniezione dei batteri all’interno del tumore è ben tollerata, mentre si sa ancora poco dei potenziali rischi di una somministrazione per via sistemica, necessaria per raggiungere la malattia nei diversi distretti del corpo. «Sappiamo da studi preclinici sul topo che la somministrazione di E. coli Nissle per via endovenosa è associata con una certa tossicità e questo dimostra la necessità di ingegnerizzare ulteriormente i batteri in modo da migliorare la precisione con cui raggiungono il tumore. Questo – prosegue Geiger – ci permetterebbe di iniettare meno batteri nel sangue riducendo l’infiammazione sistemica. Diversi laboratori, incluso il mio, stanno attualmente sperimentando varie strategie per raggiungere questo obiettivo». Il passo successivo sarà quello di migliorare ancora i batteri per renderli multitasking, cioè in grado di produrre non solo L-arginina, ma anche altre molecole utili. Ciò permetterebbe di avere «un maggiore effetto terapeutico e una più vasta applicazione nei pazienti malati di cancro».
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Nella foto in alto (di Loreta Daulte), Roger Geiger con quattro ricercatori del suo gruppo: da sinistra, Gaia Antonini, Giulia Saronio, Lorenzo Petrini e Giada Zoppi