covid-19

L’anticorpo monoclonale ticinese
è l’unico a funzionare
anche contro la variante omicron

Venerdì 14 gennaio 2022 circa 7 minuti di lettura In deutscher Sprache

Uno studio pubblicato su Nature dimostra che omicron sfugge alla maggior parte dei vaccini e dei farmaci. Una delle poche eccezioni è rappresentata dal Sotrovimab, selezionato dalla Humabs di Bellinzona
di Agnese Codignola

Mentre si segnala la presenza di un nuovo ceppo mutante a Cipro, già ribattezzato (non ufficialmente) deltacron per le sue caratteristiche ibride tra la variante delta e la omicron, la comunità scientifica si interroga sul significato biologico di un virus che è talmente diverso da quello del ceppo originario di Wuhan da risultare, secondo alcuni, un’entità a se stante. Così, se per una parte dei virologi omicron rappresenta l’inizio dell’evoluzione più benigna, quella verso un normale virus respiratorio stagionale, per altri non ci sono prove per affermare che questo sia il destino della variante identificata in Sudafrica. La quale, al contrario, poiché per infettare sfrutta una proteina dell’organismo particolarmente diffusa, la catepsina, pur dando meno spesso gravi polmoniti, potrebbe arrecare gravi danni ad altri organi quali, tra gli altri, fegato e cuore: solo il tempo chiarirà la sua natura. 

In realtà si tratta sempre di speculazioni che prendono origine dal confronto con gli altri coronavirus, da test in vitro su organoidi (repliche in miniatura di organi umani) e su particelle virali sintetiche, così come da esperimenti sugli animali da laboratorio a volte molto distanti dall’uomo, o su sieri di guariti e vaccinati, ma che in nessun caso sono conclusivi. Per ora, le uniche certezze sono quelle relative alla maggiore contagiosità di omicron, al cambiamento parziale dei sintomi e, soprattutto, a quello cui si sperava non si giungesse mai: la resistenza di questa variante del virus SARS-CoV-2 (responsabile della malattia Covid-19) agli anticorpi, a prescindere da come essi siano prodotti (cioè se con la malattia, con la vaccinazione o attraverso la somministrazione dall’esterno di anticorpi monoclonali). Nelle ultime settimane sono stati infatti pubblicati diversi studi che giungono tutti a un’identica conclusione: omicron sfugge a tutti gli anticorpi, con un’unica eccezione per quanto riguarda i monoclonali (il Sotrovimab), e la sua invincibilità può essere contrastata solo parzialmente dal richiamo del vaccino, che ne attenua l’effetto e riesce a mantenere un certo livello di protezione. La buona notizia è che quell’unica speranza lasciata intravvedere dal Sotrovimab - un anticorpo monoclonale messo a punto in Ticino, dalla Humabs BioMed di Bellinzona (azienda del gruppo americano Vir Biotechnology, dal 2017), e approvato per la prima volta nel giugno scorso - potrebbe avere ripercussioni che vanno al di là della scoperta di una terapia biologica efficace. Ma andiamo per ordine.

Ad accendere un faro sulla temuta “escape”, cioè la capacità della variante di aggirare la reazione immunitaria, è stata la rivista scientifica Nature, che nel suo numero natalizio ha pubblicato, in contemporanea, le sintesi di tre studi già sottoposti a revisione, per ora non tutti noti nei dettagli.

In uno di essi, firmato dai virologi dell’Africa Health Research Institute di Durban e dagli altri colleghi sudafricani che per primi hanno segnalato l’esistenza di omicron, si vede che omicron resiste agli anticorpi di chi ha superato la malattia, il cui potere neutralizzante diminuisce di 22 volte. Inoltre supera anche quelli di chi si è vaccinato con uno dei quattro vaccini più diffusi (Moderna, Pfizer, Johnson&Johnson e AstraZeneca); il richiamo (la cosiddetta terza dose) restituisce solo in parte la capacità di fronteggiare l’attacco virale, che risulta diminuita di quattro volte. Inoltre lo studio dimostra che 17 dei 19 anticorpi monoclonali in sperimentazione (tranne uno già in commercio) non possono nulla contro questa variante. 

Un altro studio, firmato dai ricercatori dell’Istituto Pasteur di Parigi, e condotto sul virus isolato da una paziente proveniente dall’Egitto, è giunto alle stesse conclusioni: omicron sconfigge sei dei nove anticorpi approvati in commercio, e degli altri tre riduce la potenza di 3-80 volte rispetto a quanto si vede con Delta. Il virus resiste poi anche agli anticorpi dei sieri dei convalescenti e dei vaccinati (oltre cento quelli analizzati). Gli anticorpi dei vaccinati con richiamo conservano qualche attività, ma la concentrazione necessaria a neutralizzare la variante è da 6 a 23 volte superiore a quella richiesta da delta.

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Il terzo studio apre però alla speranza. A firmarlo sono proprio i ricercatori della Humabs BioMed (prima autrice Elisabetta Cameroni, coordinatore Davide Corti), insieme con i colleghi della Washington University e di numerose altre università e istituzioni internazionali), che hanno verificato una grande quantità di parametri su particelle virali sintetiche (cioè modificate in laboratorio), dette pseudovirus, che recano la proteina spike mutata in superficie, ma non sono in grado di replicarsi. Lo studio conferma, innanzitutto, che la variante omicron si lega ai recettori delle cellule umane (chiamati ACE2) molto più efficacemente delle precedenti, e si lega anche agli ACE2 di topo, fatto preoccupante perché significa che omicron potrebbe infettare i roditori, eventualmente mutare ancora, e da questi tornare all’uomo in nuovi, pericolosi assortimenti.
Ma, soprattutto, i ricercatori ticinesi e statunitensi hanno controllato come si comportano gli anticorpi dei vaccinati e dei guariti verso omicron. Per quanto riguarda i vaccini, Sputnik V, Sinopharm e la monodose di Johnson & Johnson si sono mostrati inefficaci, mentre Moderna, Pfizer/BionTech e Astrazeneca hanno mantenuto una parvenza di efficacia, anche se la potenza della protezione è apparsa in calo di 20-40 volte. Gli anticorpi di chi è stato vaccinato dopo una prima infezione risultano, invece, un po’ più efficaci, perché perdono efficacia “solo” di un fattore cinque (sono necessarie concentrazioni moltiplicate per cinque per avere lo stesso effetto che esercitano su delta), ma anch’essi non sono sufficienti a fermare omicron. La situazione, anche in questo caso, migliora con il richiamo, che permette una riduzione “solo” di 4 volte.
Per quanto riguarda i monoclonali, l’unico che mantiene la sua capacità di neutralizzare il virus è, come accennavamo, il Sotrovimab, un anticorpo diretto contro una delle quattro zone della proteina spike che non mutano nelle varianti, e sono cioè “conservate”, probabilmente perché troppo importanti per cambiare. Anticorpi diretti contro queste zone erano stati studiati e selezionati fino dai primi mesi della pandemia, e si sono rivelati efficaci nei test di laboratorio anche contro un’altra famiglia di coronavirus correlato a SARS-CoV-2, i sarbecovirus. Omicron è comunque un nemico ostico anche per il Sotrovimab: per dimezzare la carica virale occorrono concentrazioni di monoclonale triple rispetto a quelle necessarie per le altre varianti, e questo potrebbe essere un problema sia per quanto riguarda le possibili allergie, sia per i costi già molto alti anche alle dosi standard (il monoclomale è già stato approvato tanto negli Stati Uniti quanto in Europa e in altri Paesi). 

Nel frattempo, un altro anticorpo diretto contro le stesse zone è al momento in sperimentazione clinica in Cina (in particolare uno chiamato per ora DXP-604, realizzato da BeiGene and Singlomics).

L’importanza del lavoro dei ricercatori di Bellinzona potrebbe comunque andare al di là della messa a punto di un monoclonale. Infatti, le zone della proteina spike che non cambiano potrebbero dare origine a una nuova generazione di monoclonali e, soprattutto, di vaccini, che risulterebbero poco o per nulla sensibili alle mutazioni delle varianti e non dovrebbero quindi essere aggiornati, non perdendo efficacia.

Una conferma indiretta è giunta anche da un quarto lavoro che giunge alle stesse conclusioni dei precedenti tre, ma fa un passo in avanti per quanto riguarda l’interpretazione del ruolo del richiamo. In questo caso lo studio, pubblicato sulla rivista scientifica Cell, è stato condotto dai ricercatori dell’università di Harvard (Stati Uniti) sul plasma di 239 operatori sanitari del Massachusetts General Hospital di Boston, 70 dei quali avevano ricevuto anche il richiamo di un vaccino Moderna, Pfizer/BionTech o J&J. Come per gli altri campioni, anche in questo caso l’unica barriera contro omicron è risultata essere quella di chi si era sottoposto a un booster (alla terza dose, appunto), e le spiegazioni possibili, secondo gli autori, sono due, non mutualmente esclusive: il richiamo potrebbe originare anticorpi che si legano più strettamente alla proteina spike, oppure potrebbe indurre la sintesi di nuovi anticorpi, diretti contro una delle zone conservate della stessa.
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Nella foto in alto (di Marian Duven), la ricercatrice Elisabetta Cameroni (Humabs BioMed), prima autrice dello studio pubblicato da Nature