Alla ricerca dell’essenza
della creatività: “Ingegno, ma
anche lavoro come tanti”
Parla Stefano Arienti, protagonista con Paolo Mazzarello dell’ottavo incontro sulla "Scienza a regola d’arte” al LAC (Lugano). Artista fra i più interessanti della scena contemporanea, usa oggetti della quotidianità di Valeria Camia
L’una usa un linguaggio fluido e di proposito ambivalente; l’altra ricorre a un linguaggio rigido e preciso. L’una sempre più specifica, asservita ad altre discipline, dal cinema alla TV, passando per la moda e lo spettacolo (fonti inarrestabili di produzioni di immagini); l’altra capace di avere una pervasività universale. Stiamo parlando di arte e scienza. Due discipline che sembrano appartenere a due mondi diversi, lontanissimi fra loro. È davvero così? Per Stefano Arienti, uno dei più interessanti artisti contemporanei italiani che trasforma gli oggetti della quotidianità (compresi elenchi telefonici, fumetti, orari dei treni e poster) in sculture capaci di spiazzare chi osserva e attenuare il potenziale comunicativo dell’immagine, arte e scienza hanno più punti in comune di quanto sembri. «Condividono, ad esempio, la curiosità verso il reale e la tensione verso la scoperta, lo spirito creativo» - afferma l’artista, il quale è stato protagonista, assieme a Paolo Mazzarello, professore ordinario di storia della medicina presso l’Università di Pavia, dell’incontro “La Scienza a regola d’arte” organizzato giovedì 14 ottobre nella hall del LAC di Lugano. E poi, sia l’arte sia la scienza sono calate nella dimensione sociale, nel senso che tanto il medico quanto l’artista «sono immersi nel mondo in cui vivono e di cui fanno parte - dice Arienti - e, seppure con modalità differenti, cercano di raccontare l’essenza della vita».
La scienza non vuole, però, solo raccontare la vita, ma anche spiegarla e, là dove le è dato, migliorarla. Parlando della creatività della scienza, Paolo Mazzarello ha citato il matematico francese Henri Poincaré: “creatività è unire elementi esistenti con connessioni nuove che siano utili” (cioè che spieghino o trovino applicazioni risolutive).
Vale lo stesso per l’arte? Lei, Arienti, ad esempio, quale cura per il presente e la società cerca di offrire con la Sua arte, esposta in spazi diversi, profani e religiosi, privati e pubblici?
«Guardi, io non sono qui per adempiere a una quale che sia missione sociale - risponde in modo "eretico" Stefano Arienti. - Io sono un professionista e la mia produzione artistica è dipendente dalla committenza. Pensare che gli artisti abbiano qualche cosa di proprio da dire e vogliano aiutare a guarire la società è un radicato luogo comune, purtroppo».
Ci faccia intendere bene: Lei non crede che gli artisti siano in qualche modo chiamati ad assolvere una sorta di missione di cura e abbiano una responsabilità in tema, ad esempio, di salute della collettività?
«Può darsi che qualche mio collega voglia connotare la propria arte con un carattere specificatamente sociale. Io personalmente non pretendo che i miei progetti siano di supporto sociale o sostegno pratico a persone in difficoltà. Sono molto critico a proposito della percezione comune secondo la quale gli artisti e le artiste sarebbero individui che hanno qualche "cosa" - che sia un principio, un valore o un ideale - da esprimere e che vogliono esprimerlo tramite la propria arte. Niente di più lontano dalla realtà. La condizione degli artisti è una condizione per nulla facile e niente affatto ideale. Chi fa arte è un professionista che svolge la propria attività per mantenersi, al pari di un medico o di un giornalista. Gli artisti sono tali perché la società li riconosce per questa funzione professionale che ricoprono. Non basta dichiararsi artisti, bisogna accettare l’investitura artistica che può solo arrivare dagli altri».
Ma proprio non si sente un po’ un influencer, se vogliamo usare un termine in voga oggi? Non sente alcuna responsabilità sociale?
«Va distinta la figura dell’artista dalle sue opere. In confronto a un calciatore, un cantante o un attore, quanto vale l’influenza dell’artista? Sono le sue opere, piuttosto, a essere usate per influenzare. E, direi, non dall’artista. Il quale usa spesso, volutamente, un linguaggio ambiguo e lascia di proposito impressi, nelle sue creazioni, messaggi alquanto imprecisi. Se la può permettere, questa assenza di chiarezza, per la contiguità che l’artista intrattiene con il mondo del potere e in particolare economico o istituzionale: le opere d’arte sono capaci di vivere una vita slegata e indipendente da quella del proprio autore e assumono anche i significati e le funzioni che l’acquirente vuole e può attribuire».
Quindi, non è sufficiente saper dipingere egregiamente o saper lavorare certi materiali in modo ineguagliabile per essere un artista?
«Certo che no! Prenda il mio caso. Non ho studiato arte, ho una laurea in Agraria. In campo artistico, nasco come piccolo artigiano. Ogni volta che devo insegnare come si tiene in mano una matita mi trovo in difficoltà. Eppure… Mi sono inventato nuove tecniche, e per quello che faccio ho ricevuto una sorta di investitura sociale. La società mi ritiene un artista. Allora, lo sono. Bisogna fare in prima persona ed è necessario che la mano che fa l’opera sia riconosciuta dalla società come quella di un artista. Pensiamo alla storia artistica di Vincent Van Gogh. Se Johanna Bonger non avesse salvato i suoi quadri, noi oggi non saremmo qui a parlare di lui. Essere artista ha indubbi vantaggi, ma è anche un enorme peso. Per diventare quello che sono oggi, ci ho messo “la faccia” e sono ora ingabbiato in un lavoro. Alla mia età non sarebbe facile, e credo non sarebbe nemmeno possibile, reinventarmi. Il mio ruolo sociale coincide con quello che so fare. Faccio arte, perché qualcuno mi giudica artista e riconosce le mie opere».