oncologia

Tumori del sangue, ecco perché
(in certi casi) riescono a "sfuggire" alle terapie e a diventare resistenti

Lunedì 6 maggio 2024 circa 5 minuti di lettura
Francesco Bertoni, vicedirettore dell’Istituto Oncologico di Ricerca di Bellinzona (foto di Chiara Micci / Garbani)
Francesco Bertoni, vicedirettore dell’Istituto Oncologico di Ricerca di Bellinzona (foto di Chiara Micci / Garbani)

Alcuni tipi di linfomi "accendono" in modo anomalo il loro DNA per creare una barriera. Il meccanismo individuato dall’équipe di Francesco Bertoni, allo IOR di Bellinzona. Si studiano nuove contromisure
di Elisa Buson

Ci vuole sempre un piano B per rimediare agli imprevisti della vita. Lo sanno bene le cellule tumorali, che (purtroppo per noi) sono maestre nell’architettare strategie alternative con cui aggirare gli effetti dei farmaci, anche quelli più innovativi e “intelligenti”. Scoprire e mandare all’aria i loro piani è l’obiettivo del professor Francesco Bertoni, vicedirettore dell’Istituto Oncologico di Ricerca (IOR, affiliato all’Università della Svizzera italiana e membro di Bios+) di Bellinzona. Insieme ai ricercatori del Laboratorio di genomica dei linfomi che dirige, Bertoni è riuscito a individuare un nuovo meccanismo molecolare che rende alcuni tipi di tumore del sangue resistenti ai farmaci. Un risultato, pubblicato sulla rivista Molecular Cancer Therapeutics, che permetterà di migliorare l’efficacia delle terapie a vantaggio della sopravvivenza dei pazienti.

«La resistenza è un fenomeno piuttosto comune nei tumori, perché all’interno delle cellule ci sono meccanismi di segnalazione ridondanti, vie di comunicazione parallele che possono essere attivate in modo alternativo in caso di bisogno», spiega Bertoni. «Questo accade più facilmente quando si colpisce il tumore con un singolo farmaco: le sue cellule possono difendersi dall’attacco modificando la proteina bersaglio della terapia, oppure attivando un meccanismo molecolare alternativo per riattivare ciò che è stato “spento” dal farmaco».

Si tratta di un problema di prim’ordine nel campo dei tumori del sistema linfatico, i linfomi, incluso un sottogruppo particolare che rappresenta tra il 5 ed 15% dei casi totali, cioè quello dei linfomi della zona marginale: provocati dall’impazzimento di alcune cellule del sistema immunitario (i linfociti B), possono interessare i linfonodi oppure altri organi come lo stomaco o la milza. Alcune forme di linfoma marginale gastrico sono legate all’infezione da Helicobacter pylori e possono andare in remissione in seguito all’eradicazione del batterio, così come alcune forme di linfoma marginale splenico possono rispondere al trattamento del virus dell’epatite C, se concomitante. In altri casi, invece, è necessario ricorrere alla chemio e all’immunoterapia.

«In genere si utilizzano anticorpi monoclonali anti-CD20 e chemioterapici come clorambucile o bendamustina», ricorda l’esperto dello IOR. «Da una decina di anni sono disponibili anche farmaci intelligenti come gli inibitori di BTK e PI3K, che agiscono in modo mirato bloccando segnali cruciali per la proliferazione dei linfociti B. Funzionano all’incirca nella metà dei pazienti trattati, ma il loro uso prolungato può generare resistenza favorendo una recidiva della malattia».

Per capire i meccanismi alla base di questo fenomeno, i ricercatori guidati da Bertoni hanno cercato di riprodurre in provetta ciò che accade nell’organismo dei pazienti. Lo hanno fatto grazie a uno studio sostenuto dal Fondo Nazionale Svizzero, condotto in collaborazione con l’Istituto Oncologico della Svizzera Italiana (IOSI) di Bellinzona e importanti centri di ricerca internazionali come il Dana-Farber Cancer Institute di Boston, il Centro di Riferimento Oncologico (CRO) di Aviano in Italia e l’Istituto di ricerca contro le leucemie Josep Carreras di Barcellona, in Spagna.

«Per quasi nove mesi abbiamo esposto cellule umane di linfoma marginale all’azione dell’inibitore di PI3K idelalisib, simulando un trattamento prolungato simile a quello a cui vanno incontro molti pazienti, e abbiamo osservato che alcune cellule riprendevano a proliferare perché erano diventate resistenti. Abbiamo quindi sequenziato il loro Dna e il loro Rna e indagato quali fossero i geni “accesi”», racconta Bertoni. «In questo modo abbiamo scoperto che alla base della resistenza non c’erano mutazioni del Dna, bensì alterazioni chimiche (epigenetiche) che non modificavano i geni ma la loro espressione». In particolare, le cellule tumorali resistenti avevano acceso in modo improprio i geni che servono a produrre tre proteine: ERBB4, HBEGF e NRG2. Queste molecole si trovano solitamente espresse in cellule epiteliali, come quelle del tumore della mammella, e la loro azione viene contrastata con farmaci inibitori come lapatinib. Intrigati da questa similitudine, i ricercatori dello IOR hanno provato a sperimentare gli stessi farmaci nelle cellule di linfoma marginale, riuscendo a ripristinare la loro sensibilità agli inibitori di BTK e PI3K.

«Abbiamo subito intuito che potevamo ottenere lo stesso risultato anche con una strategia differente», continua Bertoni. «Dato che la resistenza è dovuta all’accensione di geni che dovrebbero rimanere spenti, abbiamo pensato di inibire la loro espressione usando farmaci che agiscono sulla cromatina, cioè sul complesso di Dna e proteine che determina l’organizzazione tridimensionale della doppia elica. Modificando la compattezza della cromatina, infatti, possiamo controllare l’accesso dei fattori di trascrizione al Dna e dunque l’espressione dei geni». L’idea si è dimostrata vincente e ha permesso di ripristinare la sensibilità ai farmaci delle cellule tumorali in provetta.

Ora che sono state individuate queste due strade per uscire dal tunnel della resistenza, non resta che verificare se siano percorribili anche in ambito clinico, cioè nel trattamento dei pazienti. «Stiamo cercando finanziamenti proprio per portare avanti le nostre ricerche e confermare in modo più ampio le scoperte che abbiamo fatto fin qui in laboratorio», afferma Bertoni. «Il nostro obiettivo è quello di analizzare ulteriori campioni di siero e plasma di pazienti in trattamento con farmaci intelligenti, in modo da vedere in quante persone siano aumentate quelle proteine che abbiamo visto causare resistenza negli esperimenti in vitro. Questo sarà il primo passo che permetterà poi di avviare studi clinici per individuare il giusto mix di farmaci in grado di migliorare la risposta dei pazienti al trattamento».