Quegli intrecci misteriosi
fra le cause dell’Alzheimer
e l’origine dei tumori

Intervista a Paolo Paganetti (Laboratori EOC). È sua la scoperta che la proteina Tau, protagonista dell’Alzheimer, regola anche l’efficacia di un’altra proteina (la p53) fondamentale nello sviluppo del cancrodi Paolo Rossi Castelli
Una vita passata, letteralmente, a studiare la malattia di Alzheimer e i suoi misteri, che tuttora, purtroppo, sono in buona parte irrisolti. Paolo Paganetti, responsabile del gruppo “Aging Disorders” nei Laboratori di Ricerca Traslazionale dell’Ente Ospedaliero Cantonale (LRT-EOC) a Bellinzona, e professore titolare all’Università della Svizzera italiana, aveva 14 anni, quando è stata scoperta, nel 1975, una proteina chiamata Tau, che poi i ricercatori di tutto il mondo hanno associato, un decennio dopo, a questa patologia neurodegenerativa, insieme a un’altra proteina, la beta-amiloide. Ora Paganetti ha 63 anni ed è vicino all’età del pensionamento, dopo due decenni passati alla Sandoz e al colosso Novartis, e altri vent’anni in istituti di ricerca importanti, statunitensi e svizzeri. Ma ancora mille dubbi accompagnano la ricerca internazionale su queste proteine. E Paganetti, nel frattempo, non ha mai smesso di studiare l’Alzheimer, che è rimasto il focus, il centro, del suo lavoro e, forse, quasi un’ossessione. Da dove trae origine la malattia? Qual è la causa reale, al di là delle evidenze empiriche (l’accumulo di grovigli di proteina Tau e le placche senili di beta-amiloide)? Perché non siamo ancora riusciti a combatterla in modo efficace?
«Quando si parla di Alzheimer - risponde Paganetti - i tempi sono quanto mai lenti, per varie ragioni di complessità. Il neurologo e psichiatra tedesco Alois Alzheimer descrisse nel 1906, per la prima volta, una serie di cambiamenti (depositi anomali di proteine e grovigli di fibre all’interno delle cellule nervose) in una paziente, Auguste Deter, che era affetta da una forma di demenza precoce e progressiva. In seguito questa malattia prese il nome proprio dal dottor Alzheimer. Ma solo 69 anni dopo, nel 1975, è stata individuata la proteina Tau, e solo 11 anni dopo, nel 1986, si è visto che questa molecola (in una forma alterata) era presente nei grovigli neurofibrillari descritti nel 1906. Sono poi stati necessari ancora 12 anni, fino al 1998, per arrivare all’evidenza clinica del coinvolgimento della proteina Tau (o, se vogliamo essere più precisi, per dimostrare - come hanno fatto tre gruppi di ricerca indipendentemente l’uno dall’altro - che mutazioni del gene che codifica per la proteina Tau possono provocare una malattia neurodegenerativa: non proprio la malattia di Alzheimer, ma una patologia molto simile). In ogni caso, la strada era aperta».
E da allora a oggi non si è più scoperto nulla?
«Ventisei anni dopo la scoperta di queste mutazioni, l’ipotesi più accreditata (che io non voglio assolutamente “screditare”) è quella per cui la proteina Tau, in qualche modo, diventi tossica, e per tale ragione porti a un cattivo funzionamento delle cellule nervose e alla loro morte. I meccanismi molecolari che causano la distruzione dei neuroni non sono ancora chiari, però. Quindi abbiamo una teoria da 26 anni, ma non sappiamo esattamente come tutto questo avvenga...»
Lei, in realtà, da lungo tempo studia anche un’ipotesi diversa e alternativa a quella dominante
«Sì, per certi aspetti... Come dicevo, quello che sappiamo è che la proteina Tau alterata si deposita all’interno delle cellule nervose, forma dei grumi, forma degli aggregati, e - secondo la teoria corrente - provoca, così, la malattia di Alzheimer. Non si tiene conto, però, di un altro fatto, per me molto importante: se la proteina Tau si altera e si accumula nei neuroni, danneggiandoli sempre più gravemente, è evidente che non può compiere, nel frattempo, anche il suo lavoro normale, forse importante per l’organismo. Questo aspetto è pochissimo indagato dalla Ricerca internazionale, e invece è diventato uno dei filoni portanti dei miei studi. Insomma, secondo me è possibile che, all’origine della malattia, ci sia anche un’assenza di proteina Tau sana, non alterata».
A questo punto deve però spiegarci cosa fa la proteina Tau in un organismo sano...
«La proteina Tau è normalmente presente in ognuno di noi, all’interno del sistema nervoso, e svolge un ruolo importante nella stabilizzazione dei microtubuli dei neuroni (i microtubuli, lo ricordo, sono una specie di impalcatura degli assoni, la parte allungata delle cellule nervose)».
Allora, riassumiamo ancora una volta, perché il tema è complesso. Lei ha detto: ok, la Tau ha probabilmente un ruolo nell’insorgenza dell’Alzheimer, perché i grumi della versione alterata di questa proteina danneggiano le cellule nervose, fino a farle morire. Però, alterandosi e accumulandosi, la Tau non fa più quello che avrebbe dovuto fare. E anche da questa assenza potrebbero poi trarre origine i danni che portano all’Alzheimer.
«Sì, esattamente...»
Come hanno reagito i colleghi a questa Sua teoria “eretica”?
«Mi hanno detto: ma tu sei matto! Perché poni in discussione una teoria che è diventata quasi un dogma (anche se i dogmi, nella scienza, non dovrebbero proprio esistere. Ci sono probabilità, ma non sicurezze...)?
A sfavore delle mie ipotesi sono intervenuti, almeno all’inizio, anche i risultati di un esperimento sui topi. In pratica sono stati “creati”, tramite l’ingegneria genetica, topi privi del gene che porta alla produzione della proteina Tau. Ebbene, in questi animali non è successo nulla (non sono stati rilevati danni particolari). Quindi, la mancanza della Tau non è apparsa così negativa».
Però le Sue ricerche sono andate avanti ugualmente...
«Sì, perché abbiamo cambiato metodo. In pratica, abbiamo provato a eseguire test in laboratorio non utilizzando cellule giovani, come quelle dei topi transgenici, ma cellule invecchiate (l’Alzheimer, come si sa, è quasi sempre correlato all’avanzare dell’età). Per far invecchiare in modo rapido le cellule (non potevamo aspettare i tempi naturali), abbiamo utilizzato una sostanza tossica, l’etoposide (che, fra l’altro, è usato anche come farmaco chemioterapico contro il cancro). Quando le cellule vengono a contatto con l’etoposide, entrano in apoptosi (fanno, cioè, scattare una sorta di suicidio programmato, perché i danni al DNA indotti dalla sostanza tossica non sono riparabili), oppure vanno in senescenza, cioè invecchiano e riducono la loro attività».
E cosa avete visto?
«Abbiamo dimostrato che l’equilibrio fra la “scelta" verso l’apoptosi (la soluzione di maggiore garanzia per l’organismo, perché allontana il rischio di cellule gravemente danneggiate che continuano a duplicarsi), o verso la senescenza, cambia in modo molto significativo a seconda della presenza o dell’assenza della proteina Tau. In assenza della Tau abbiamo visto che le cellule sottoposte allo stress dei danni al DNA attivano meno l’apoptosi, in favore della senescenza. Questo è stato il primo studio che abbiamo pubblicato nel 2020, ma non mi bastava. Volevo capire quali fossero i meccanismi che stavano dietro a tutto questo».
La storia si complica...
«Ci siamo accorti che, a seconda della presenza o dell’assenza della proteina Tau, la quantità di un’altra importante proteina, la p53, che si trova nelle cellule dopo uno stress, è differente. E questo è molto interessante, perché più della metà di tutti i tipi di tumore è riconducibile alla p53 (o, per essere più precisi, a una mutazione genetica che indebolisce la sua azione)».
Quindi si può ipotizzare che esista una sorta di collegamento (tutto da valutare) fra il cancro e le malattie neurodegenerative?
«A livello clinico l’Alzheimer e i tumori non hanno niente a che fare. Ma a livello delle singole cellule rappresentano i due estremi della bilancia: sottoposta a danni, cioè, la cellula può perdere il controllo (per un difetto della proteina p53) e duplicarsi indefinitamente, come avviene nel cancro, oppure può andare incontro alla morte cellulare, come accade nell’Alzheimer, se la proteina Tau non è presente in quantità sufficiente. Insomma, si può immaginare che esistano meccanismi comuni fra una crescita cellulare fuori controllo, o una morte fuori controllo. Per dirla ancora in un altro modo: possiamo affermare che il cancro e l’Alzheimer siano esempi estremi di quello che è il destino cellulare».
La proteina p53 collabora, o è una “rivale” della proteina Tau?
«Prima di risponderLe, mi permetta di spiegare rapidamente come funziona la proteina p53. Questa molecola entra in azione quando il DNA di una cellula viene danneggiato, per qualche motivo (sostanze tossiche, radiazioni, e così via). Quando scatta l’emergenza, la quantità di p53, che di norma è molto bassa, viene potenziata fortemente dalla cellula, e questa proteina agisce come una sorta di direttore d’orchestra: in particolare, blocca la divisione cellulare, in modo da permettere alla cellula stessa di riparare il codice genetico danneggiato, e di ripartire poi in modo regolare. Se, però, il danno al DNA è troppo grave per essere aggiustato, la p53 innesca l’apoptosi (il suicidio), o anche la senescenza cellulare, impedendo alla cellula danneggiata di continuare a dividersi e, potenzialmente, di formare un tumore».
Ma torniamo al ruolo della proteina Tau
«Come dicevo, abbiamo scoperto che, a seconda della presenza, o meno, della proteina Tau, la quantità di p53 che troviamo nelle cellule sottoposte a stress è diversa. Questo perché abbiamo scoperto che la Tau si lega e inibisce un’altra proteina chiamata MDM2, la quale controlla la degradazione della p53. Meno Tau, meno inibizione della MDM2, più p53 nelle cellule. In più abbiamo scoperto che la Tau con una mutazione genetica che causa una demenza ereditaria si lega meno bene alla MDM2».
Dunque la proteina tipica dell’Alzheimer può influenzare in qualche modo anche lo sviluppo dei tumori?
«Sì, dovremo chiederci sempre di più se la proteina Tau abbia un ruolo anche nel cancro e se, dal canto suo, la proteina p53 abbia un ruolo nell’Alzheimer. Una circostanza molto interessante è che, effettivamente, nel cervello delle persone con la malattia di Alzheimer si trovano forme di p53 anomala, come se venisse degradata meno, e in qualche modo si accumulasse anche lei».
Siete andati oltre su questa strada?
«Abbiamo scoperto, utilizzando le informazioni fornite dalle banche dati internazionali che raccolgono enormi quantità di tessuti prelevati a pazienti oncologici, che tracce di proteina Tau si trovano anche in diversi tipi di tumore (e questa, per certi aspetti, è una rivoluzione, perché si è sempre ritenuto che la Tau fosse presente, invece, solo nelle cellule nervose). Per esempio, abbiamo identificato la Tau nelle cellule del tumore al seno e ci siamo resi conto che la concentrazione di questa proteina, in alcuni casi, può aiutare a prevedere i tempi di sopravvivenza delle pazienti. I tumori al seno che hanno (esprimono) più Tau, sembrano più controllabili di quelli che esprimono meno Tau: la differenza è molto significativa.
Anche nel linfoma si vede questa differenza (l’abbiamo verificato con la banca dati, molto importante, del gruppo di ricerca guidato da Francesco Bertoni all’Istituto Oncologico di Ricerca di Bellinzona)».
Che tipi di nuove terapie potrebbero emergere da queste vostre ricerche?
«Abbiamo visto, innanzitutto, che la quantità di proteina Tau nelle cellule tumorali ha un effetto su diversi tipi di trattamenti. Sappiamo anche, da esami di laboratorio, che la quantità di Tau, in certi casi, è correlata alla possibilità che si creino metastasi».
Se la proteina Tau sembra in grado di frenare alcuni tipi di tumore, verrebbe la tentazione di proporla come farmaco anticancro
«Sicuramente è un aspetto importante, da valutare con grande cautela, però. Dovremo capire di più, studiare di più, esaminando caso per caso».