neuroscienze

Le persone con un eccesso
di sensibilità sono più
a rischio di "esclusione sociale"

Giovedì 9 gennaio 2025 ca. 5 min. di lettura
Rosalba Morese, ricercatrice e docente di psicologia e neuroscienze sociali all’Università della Svizzera Italiana (foto di Chiara Micci / Garbani)
Rosalba Morese, ricercatrice e docente di psicologia e neuroscienze sociali all’Università della Svizzera Italiana (foto di Chiara Micci / Garbani)

Il cervello tende più facilmente a rispondere con il dolore. Nuovo studio della neuroscienziata Rosalba Morese (USI), insieme al Neurocentro, per esaminare anche il deficit di empatia, nelle malattie neurodegenerative
di Elisa Buson

Chi ha la pelle chiara, si sa, deve usare un fattore di protezione più alto per evitare di scottarsi al sole. Allo stesso modo, chi ha un cervello più sensibile agli stimoli e alle emozioni, dovrebbe poter usare strumenti specifici per proteggersi da esperienze difficili come il bullismo e il cyberbullismo. Ne è convinta Rosalba Morese, ricercatrice e docente di psicologia e neuroscienze sociali all’Università della Svizzera Italiana (USI), che attraverso i suoi studi sta accendendo un faro sulla faticosa vita emotiva delle persone “altamente sensibili”

«Al giorno d’oggi - spiega - si parla spesso della mancanza di empatia, perché le persone sembrano sempre più distaccate e disinteressate ai problemi altrui, mentre si sa molto poco di quella parte della popolazione che mostra una spiccata sensibilità».

La prima a occuparsi di questa tematica è stata la psicologa californiana Elaine Aron, che a metà anni Novanta ha tratteggiato l’identikit dei soggetti altamente sensibili: il loro cervello, secondo quanto emerso dagli studi di neurofisiologia, mostra una maggiore attivazione delle aree coinvolte nell’attenzione, nelle emozioni e nella coscienza ogni qualvolta percepisce ed elabora stimoli sensoriali, emotivi e cognitivi. 

Come spiega l’associazione Persone Altamente Sensibili - Svizzera (HSP-Switzerland), questa condizione non è patologica: si tratta semplicemente di un modo diverso di essere, che nella vita di tutti i giorni può comportare vantaggi e svantaggi. Chi è altamente sensibile, ad esempio, è più riflessivo e attento ai dettagli, intuisce prima i pericoli e tende a essere più empatico, ma spesso finisce per sentirsi sopraffatto dagli stimoli risultando più stanco e ansioso. 

La maggior parte degli studi condotti finora in questo campo ha approfondito gli aspetti percettivi connessi all’alta sensibilità: Rosalba Morese ha invece pensato di andare oltre e studiare questa modalità di funzionamento nel mondo sociale, per capire cosa cambia concretamente nelle relazioni interpersonali

Insieme alla collega Sara Palermo dell’Università di Torino e alle sue collaboratrici Alessia Izzo e Lucia Morellini, Morese ha pubblicato sulla rivista scientifica Frontiers in Human Neuroscience un modello teorico che cerca di spiegare cosa accade nel cervello delle persone altamente sensibili che vivono una situazione di esclusione sociale, postulando che siano più vulnerabili all’esperienza emotivamente negativa e dolorosa dell’esclusione sociale. «Sappiamo che il cervello umano - ipotizza Morese - percepisce l’esclusione quasi come fosse dolore fisico: nei soggetti altamente sensibili, in particolare, potrebbe innescarsi una risposta neurofisiologica associata all’anticipazione del dolore che determina una maggiore attivazione delle emozioni negative - ipotizza Morese. - Questo modello teorico apre la strada a nuove ricerche in vari scenari sociali, che ci permetteranno di capire quali strategie educative e terapeutiche possono aiutare queste persone ad affrontare le situazioni più complesse». 

Tra queste c’è sicuramente il cyberbullismo, come ci ricordano quotidianamente le cronache di adolescenti sempre più prigionieri di smartphone e social network. «È sicuramente un argomento di grande attualità, anche nel campo delle neuroscienze - sottolinea Morese. - Sappiamo infatti che il cervello umano percepisce il mondo virtuale come reale, ma i processi di regolazione delle emozioni non sono completamente ottimizzati dal punto di vista funzionale come quando interagiamo con altre persone dal vivo: per questo è utile capire quali fattori possono avere un’azione preventiva o protettiva in simili contesti».

Con questo obiettivo in mente, Morese dall’USI ha fatto squadra con Matteo Angelo Fabris, Claudio Longobardi e Davide Marengo dell’Università di Torino per condurre una ricerca su 156 adolescenti che vivono nel Nord Italia. Dopo averli profilati, misurandone il livello di empatia e l’eventuale coinvolgimento in atti di cyberbullismo, li hanno invitati a partecipare a un gioco virtuale molto utilizzato nel campo delle neuroscienze, il Cyberball, che permette di riprodurre in laboratorio il dolore causato dall’esclusione sociale. In pratica, il gioco prevede che la persona partecipante utilizzi il joystick per passarsi la palla con due giocatori virtuali che, ad un certo punto, iniziano a giocare fra di loro escludendolo.

Studiando le reazioni emotive dei giovani, i ricercatori hanno scoperto che le vittime di cyberbullismo tendono a rispondere in modo più negativo sia alle esperienze di inclusione che a quelle di esclusione, probabilmente perché la loro percezione degli stimoli è caratterizzata da un pregiudizio cognitivo negativo. La cybervittimizzazione può dunque essere associata all’interiorizzazione di aspettative negative sugli altri e a una riduzione della capacità di provare emozioni positive.

Inoltre lo studio, pubblicato su Digital Health, sembra suggerire che la capacità di mettersi nei panni degli altri sia un fattore in grado di prevenire il cyberbullismo: livelli più elevati di empatia, come quelli che contraddistinguono le persone altamente sensibili, sono infatti associati a manifestazioni emotive opposte all’esclusione sociale. «Promuovere un comportamento empatico nei ragazzi può ridurre la probabilità di atti di bullismo e, allo stesso tempo, favorisce un atteggiamento prosociale che crea una rete di supporto intorno alle vittime di bullismo» - afferma Morese.

Ovviamente i giovani altamente sensibili che vengono presi di mira sui social soffrono molto di più dei loro coetanei, soprattutto se vivono in un contesto difficile: per questo la ricercatrice dell’USI intende continuare i suoi studi per capire in quali situazioni può aumentare il rischio di suicidio.

Nel frattempo il suo 2025 inizia con una novità. «Ho deciso di approfondire le mie ricerche sull’empatia valutandone non solo gli aspetti psicosociali ma anche clinici - precisa Morese. - Per questo a gennaio, in collaborazione con il Neurocentro e con la Fondazione Sasso Corbaro, avvieremo un nuovo studio sul deficit di empatia e di compassione nelle malattie neurodegenerative, supportato dalla Fondazione per lo studio delle malattie neurodegenerative delle persone adulte e dell’anziano».