Musica come cura, lezione 5
Liila Taruffi: dobbiamo imparare a "vagare" meglio con la mente
di Valeria Camia
“Sognare a occhi aperti”: chi di noi non lo ha fatto almeno una volta nella vita, ritrovandosi nel bel mezzo di un discorso di cui aveva perso il filo perché la mente pensava ad altro? Gli esempi potrebbero essere tanti: un viaggio in auto di parecchi chilometri che ci pare sia durato un instante, un’insegnante che richiama l’allievo a essere meno distratto, una canzone che ci viene in mente all’improvviso durante una noiosa riunione via Zoom e ci porta lontano con i pensieri.
Stiamo parlando di "mind-wandering", ovvero vagabondaggio mentale: ci distraiamo da ciò che stiamo facendo, trascendiamo la realtà presente, fantastichiamo, immaginiamo eventi futuri o riviviamo momenti passati. E questo avviene molto più spesso di quanto si possa pensare, dato che trascorriamo metà delle nostre giornate in modalità "zoning-out", cioè in compagnia di pensieri coscienti ma che sono indipendenti dagli stimoli esterni – anche se, poi, più si invecchia, meno liberamente corre la nostra mente.
Di di per sé questo fenomeno, conosciuto nella letteratura scientifica come "perceptual decoupling" (traducibile con disaccoppiamento percettivo), non è nulla di speciale o patologico; insomma si tratta di un fenomeno comune e ordinario che avviene nella nostra mente, noto e studiato dalle neuropsicologie da una ventina di anni a questa parte.
Ancora largamente da esplorare, invece, sono le potenzialità terapeutiche del mind-wandering: ricerche ed esperimenti scientifici come quelli condotti da Liila Taruffi, ricercatrice nel campo della psicologia della musica presso l’Università di Durham (Gran Bretagna), stanno in effetti portando a rivalutare “il vagare della mente” per i suoi potenziali effetti positivi sul nostro benessere grazie al supporto musicale. «È importante fare nuova luce su quelle esperienze mentali, come il mind-wandering, che ci allontanano dall’hic et nunc (qui e ora) e dalle incessanti richieste del presente e del mondo percettivo – spiega Taruffi, che il 21 novembre alle 18 nell’aula polivalente del Campus est di Viganello sarà relatrice della quinta lezione del corso Musica come cura organizzato dalla Facoltà di scienze biomediche dell’Università della Svizzera italiana (USI) in collaborazione con la Divisione Cultura della Città di Lugano, con la IBSA Foundation per la ricerca scientifica e con il Conservatorio della Svizzera italiana. – Il vagabondare del pensiero ci permette di pianificare i nostri obiettivi, ipotizzare scenari futuri, immaginare, sognare a occhi aperti. Ecco perché bisogna imparare a saper vagabondare “per bene” o in modo funzionale con la propria mente».
Dunque il mind-wandering non ha solo un effetto negativo, legato alle distrazioni che induce, o anche alla malinconia relativa al pensare troppo al passato?
«È vero che, come dimostrano alcuni studi, vagabondare tendenzialmente su ricordi autobiografici può renderci tristi - risponde Taruffi. - In particolare per le persone che soffrono di depressione il mind-wandering si trasforma spesso in un’esperienza negativa, che blocca la progettualità e induce a rimuginare sul passato. Diversi studi basati sulla tecnica del campionamento dell’esperienza (in inglese experience sampling) mostrano che il mind-wandering è fonte di distrazione. Ad esempio, quando si chiede alle persone che partecipano a un esperimento di svolgere un esercizio di memoria, si vede che il numero di errori è correlato alla frequenza del mind-wandering. D’altra parte, vagabondare con la mente libera la creatività. E la buona notizia è che la musica sembra poter essere di aiuto a traghettare i nostri pensieri e quindi a modulare il nostro stato e funzionamento mentale! Oggi ci stiamo concentrando proprio sugli esperimenti che misurano gli effetti positivi della musica, ad esempio attraverso il metodo dell’experience sampling: in questi esperimenti viene chiesto alle persone di indicare a cosa stanno pensando mentre ascoltano la musica, a intervalli casuali».
Ci può fare qualche esempio di risposta?
«In un recente esperimento, ho applicato per la prima volta il metodo del campionamento esperienziale per catturare il mind-wandering durante l’ascolto personale (o privato) di musica nella vita quotidiana. Ventisei partecipanti hanno utilizzato un’applicazione per smartphone che permetteva di annotare i resoconti di pensieri, umore ed emozioni avuti durante l’ascolto di musica o altre attività della vita quotidiana per 10 giorni. L’applicazione era collegata a una playlist musicale, specificamente pensata per indurre emozioni positive e rilassanti. I risultati indicano che la musica è uno strumento efficace per regolare i pensieri attraverso le emozioni, sottolineando anche l’interdipendenza tra i processi cognitivi e affettivi, che sono entrambi inerenti all’ascolto della musica. Per quanto concerne il “passare del tempo” al quale ho accennato poco fa, in un altro studio abbiamo notato che se si chiede alle persone che partecipano a un test di immaginare il percorso di ascesa su una montagna, la vetta è raggiunta tanto più velocemente quanto più la musica di sottofondo è veloce».
Ci sono anche parametri più oggettivi che permettono di misurare il mind-wandering?
«Sono stati condotti diversi studi sui correlati fisiologici o neuronali, che oggi sappiamo essere legati a episodi di mind-wandering, come ad esempio il movimento delle pupille, ovvero l’osservazione oggettiva di come cambiano i movimenti oculari in base al tipo di processo cognitivo in corso. Inoltre, si studia il "default mode network" (DMN), il quale riguarda quei circuiti cerebrali specifici, di default, attivi e tipici, appunto, dei momenti in cui si è svegli e si sta pensando ad altro. Sono ricorsa a metodi di neuroimaging in uno studio condotto nel 2017 che ho svolto con colleghi: abbiamo utilizzato il campionamento del pensiero con la risonanza magnetica funzionale (fMRI) per studiare l’influenza della musica triste e felice sul mind-wandering, e i meccanismi neuronali sottostanti. È emerso che la musica triste, rispetto a quella allegra, è associata a un maggiore vagabondaggio mentale, suggerendo una relazione tra tipologia di musica e pensiero modulata attraverso le emozioni».
Le implicazioni di questi studi in campo terapeutico potranno diventare interessanti…
«Siamo ancora alla fase iniziale della ricerca, ma i dati raccolti sono incoraggianti. Suggeriscono che la musica possa essere efficacemente sfruttata per regolarizzare l’umore, così come per rafforzare gli stili positivi di mind-wandering, e dunque apre la strada verso ulteriori studi che si concentrino sul potenziale della musica nel mantenere situazioni di benessere in contesti terapeutici».
Un’ultima domanda, filosofica (se vogliamo usare questo termine): perché la musica ha questo effetto, direi quasi “potere”, sulla nostra mente?
«Rispondo citando Friedrich Nietzsche, il quale definiva la musica, ma anche l’arte in generale, come un osservatorio privilegiato dal quale considerare l’esperienza umana. In realtà, già da dall’antichità in poi, gran parte della riflessione filosofica occidentale si è interessata specificatamente all’esperienza estetica, per il fatto che essa non riguarda cose necessarie, in senso stretto, alla nostra sopravvivenza; ma proprio in questa distanza esistente tra noi e un’opera d’arte, o un brano musicale, ci è dato di cogliere un messaggio essenziale sulla nostra esistenza. Detto diversamente, l’incontro tra l’opera e la persona disvela “una verità”, ci aiuta a “ri-orientare” la nostra vita e diventa così una possibilità di conoscenza. Ecco dunque che la musica non è importante solo per i musicisti. Le note, una canzone, una melodia, rivelano qualche cosa sull’essenza umana, che va al di là della sintassi musicale ma riguarda processi emotivi, ricordi, esperienze personali, immagini, movimenti, processi empatici».