USI e Cardiocentro

Un "gemello digitale" del cuore:
così la matematica può creare
diagnosi e cure personalizzate

Venerdì 15 settembre 2023 circa 7 minuti di lettura In deutscher Sprache

Con complessi algoritmi e con l’aiuto dei supercomputer è possibile simulare l’effetto di malattie e farmaci. Intervista ad Angelo Auricchio, condirettore del Centro di Medicina Computazionale in Cardiologia
di Elisa Buson

Il cuore dei ticinesi ha i numeri giusti per battere a lungo e in salute. Non c’è dubbio, se a dirlo è un cardiologo di fama internazionale che questi numeri li studia per mestiere. Parliamo di Angelo Auricchio, napoletano di nascita ma ticinese d’adozione, che è vice-primario di Cardiologia all’Istituto Cardiocentro Ticino e referente scientifico della Fondazione Ticino Cuore. Laureato in medicina all’ombra del Vesuvio, negli anni Ottanta ha conquistato una borsa di studio in elettrofisiologia che lo ha portato a lavorare in Germania. Poi sono arrivate le esperienze a Roma, in Belgio e infine, nel 2006, l’approdo a Lugano, dove nel 2014 è stato tra i fondatori dell’innovativo Centro di Medicina Computazionale in Cardiologia (CCMC), di cui ora è condirettore, creato dal Cardiocentro e dall’Università della Svizzera Italiana (USI): un istituto tra i più avanzati d’Europa, ospitato dalla Facoltà di scienze informatiche al Campus est di Lugano, dove medicina e matematica si fondono per ricreare un “gemello virtuale” del cuore umano su cui studiare terapie sempre più personalizzate.

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Come è nata l’idea del Centro di Medicina Computazionale?

«I numeri e l’informatica - risponde Auricchio - sono sempre stati la mia passione fin da ragazzo: prima di iscrivermi alla facoltà di medicina avevo addirittura provato la strada dell’ingegneria biomedicale. Quando poi iniziai a lavorare come medico cardiologo e ricercatore clinico in Germania, ebbi modo di entrare in contatto con l’industria elettromedicale che si occupa di defibrillatori e pacemaker: per me fu come un ritorno alle origini, che mi permise di coniugare l’interesse per la medicina con quello per l’ingegneria. L’occasione per sviluppare ulteriormente questo interesse si presentò poi all’USI, grazie a un incontro organizzato dall’allora rettore, Piero Martinoli, con il preside della facoltà di Informatica, Medhi Jazayeri: durante quella chiacchierata informale parlammo delle possibili applicazioni dell’informatica alla medicina. Mi disse che di lì a breve sarebbe giunto all’USI il professor Rolf Krause, un brillante matematico con un profilo che ben si sposava con il tipo di ricerca clinica che volevo portare avanti io. E in effetti con Krause ci fu subito sintonia. Iniziammo a lavorare insieme e così nacque l’idea di creare un centro che potesse fare da ponte tra l’informatica applicata e la cardiologia. Una quindicina di anni fa c’erano ancora pochi centri di medicina computazionale al mondo, dislocati per lo più nel nord Europa e negli Stati Uniti. Pensammo che aprirne uno a Lugano sarebbe stata un’occasione unica, per l’università ma anche per i pazienti. Così ci mettemmo alla ricerca di finanziamenti, che poi arrivarono soprattutto da istituzioni private».

Il Centro conta oggi una dozzina di esperti tra medici, informatici e matematici: ma in cosa consiste esattamente il vostro lavoro?

«In pratica traduciamo quello che accade nel corpo umano in numeri ed equazioni. Il cuore, del resto, non è altro che una pompa che si contrae per effetto di cariche elettriche che entrano ed escono dalle cellule cardiache, seguendo precise leggi fisiche. Noi descriviamo quello che accade in ogni singola cellula attraverso equazioni matematiche. Si tratta di un lavoro estremamente complesso, perché ogni battito cardiaco è frutto della contrazione di miliardi di cellule che cambiano continuamente il loro stato. Per risolvere queste equazioni in tempi brevi non bastano semplici computer: servono macchine dall’elevato potere computazionale. Noi, per fortuna, possiamo contare su uno dei supercomputer più potenti d’Europa, quello dello Swiss National Supercomputing Centre (CSCS), che si trova ad appena 500 metri da noi».

Come riuscite a riprodurre virtualmente il cuore del singolo paziente?

«Per creare un gemello digitale abbiamo bisogno di tre elementi: l’immagine statica tridimensionale del cuore, ottenuta con la risonanza magnetica o la tac; il meccanismo di contrazione, ricavato dalla risonanza magnetica; e infine la componente elettrica, derivata dall’elettrocardiogramma. In pratica si chiede al supercomputer di combinare questi tre elementi e man mano si affinano le equazioni utilizzate, affinché il modello digitale prodotto dall’algoritmo riproduca in modo sempre più realistico il cuore vero. Al momento riusciamo a ottenere un’elevata somiglianza per quanto riguarda la parte elettrica, perché le equazioni che la governano sono più facili, mentre c’è ancora da lavorare per quanto concerne la parte meccanica, che è molto più complessa: risente infatti di malattie come l’ipertensione e il diabete di cui non conosciamo ancora bene le equazioni».

A cosa serve il gemello digitale del cuore?

«Serve a studiare meglio il problema di cui soffre il paziente e a testare in maniera virtuale le terapie per prevederne l’esito. È un grande passo avanti verso la medicina personalizzata del futuro, perché ci permette di identificare la migliore terapia per quel particolare problema cardiaco in quel determinato stadio di malattia di un determinato paziente. Prendiamo il caso di un impianto di pacemaker: prima di effettuare l’intervento, con il modello digitale possiamo individuare in anticipo quali sono i punti del cuore in cui fissare gli elettrodi per massimizzare l’effetto della stimolazione elettrica. In caso di fibrillazione atriale, invece, è possibile sperimentare in modo virtuale piccole bruciature terapeutiche (ablazione), o farmaci, valutandone gli effetti sul ritmo e sulla contrazione del cuore. La speranza è che ci aiuti a capire perché le attuali terapie non funzionano per tutti».

Quanto tempo ci vorrà ancora affinché questa tecnologia venga usata di routine in clinica?

«È presto per dirlo, perché siamo ancora in una fase sperimentale. La sfida ora è affinare le equazioni per descrivere malattie complesse, come lo scompenso cardiaco, e poi condurre studi clinici che permettano di dimostrare che l’approccio al paziente mediante il cuore digitale offre risultati superiori all’approccio tradizionale. Bisognerà poi lavorare per ridurre costi e tempi, in modo da rendere questa tecnologia accessibile a un numero più ampio di pazienti. Ad oggi possiamo usarla solo su pochi casi selezionati, perché ricreare un modello digitale personalizzato del cuore è molto dispendioso: basti pensare che per riprodurre pochi battiti ci vuole mezza giornata di lavoro di un supercomputer. Per questo stiamo già conducendo una “ricerca riduttiva”, per verificare se è possibile semplificare i calcoli in modo da poterli fare su computer meno potenti, senza pagare un prezzo troppo alto in termini di risoluzione del modello».

A proposito di calcoli, la sua passione per i numeri l’ha spinta a studiare perfino un algoritmo per prevedere gli eventi cardiovascolari (soprattutto, gli infarti) che potranno verificarsi nella popolazione, sul territorio. A che punto è il progetto?

«L’algoritmo è pronto: lo abbiamo sviluppato con Antonietta Mira, professoressa di statistica all’USI, e con la Fondazione Ticino Cuore, che dal 2015 raccoglie i dati relativi a tutti gli arresti cardiaci che si verificano sul territorio. Da questo punto di vista il Ticino è davvero una miniera di dati epidemiologici: abbiamo pensato di sfruttarli per realizzare un modello predittivo che ci aiutasse a ottimizzare la distribuzione di defibrillatori, ambulanze e soccorritori, in modo da intervenire sempre più tempestivamente e salvare un maggior numero di vite umane. Si tratta di un importante strumento di sanità sociale. Ora lo stiamo utilizzando per individuare le aree più calde sul territorio da tenere maggiormente sotto controllo, e per capire come il numero degli arresti cardiaci varia in base a fattori come la demografia, l’inquinamento ambientale, e gli eventi meteorologici».

Quindi possiamo dire che il cuore dei ticinesi è in una botte di ferro?

«Diciamo che se proprio si ha la sfortuna di avere un arresto cardiaco, il Ticino è il posto migliore dove trovarsi».