Parole che curano, lezione 7
Lorenzo Donati: «Il teatro?
Aiuta a gestire la malattia»
di Valeria Camia
Anche il teatro può aiutare (molto!) ad affrontare i percorsi di malattia, non solo rappresentando la malattia stessa, ma anche offrendo uno spazio espressivo alle persone che vivono un disagio. È quello che viene chiamato teatro sociale, e coinvolge attori, registi, operatori pedagogici, e poi loro, i pazienti. «L’idea - dice Lorenzo Donati, docente di Arti performative - era venuta nel 1973 al drammaturgo italiano Giuliano Scabia, e aveva compiuto un “salto in avanti” dopo il suo incontro con lo psichiatra Franco Basaglia, il quale mise a disposizione dell’artista un intero padiglione inutilizzato nell’ospedale psichiatrico di Trieste, per fare teatro. È iniziato così - continua Donati - il coinvolgimento nella scena artistica di persone che in quegli anni erano di fatto dei reclusi di fronte alla società. Quei malati, ai quali Scabia aveva chiesto di raccontare, disegnare e rappresentare una serie di scenette con dei burattini, sono diventati persone: persone che avevano lo stesso identico diritto di abitare i luoghi della società di tutti gli altri».
Donati, che è professore a contratto presso il Dipartimento di Scienze Biomediche e Neuromotorie all’Università di Bologna, sarà il protagonista della settima e ultima lezione del corso “Parole che curano”, promosso dalla Facoltà di scienze biomediche dell’Università della Svizzera italiana (USI) con la Divisione Cultura della Città di Lugano e con IBSA Foundation per la ricerca scientifica, e con la collaborazione artistica del LAC (Lugano Arte e Cultura). L’appuntamento è per lunedì 11 dicembre, ore 18, al Campus est di via La Santa 1 a Lugano, con ingresso libero.
«Sulla scena del teatro sociale - spiega Donati - i pazienti sono aiutati ad acquisire una migliore conoscenza di se stessi. Attraverso il teatro, in particolare attraverso il lavoro per la creazione di un personaggio, è possibile costruire storie e identità differenti dalle proprie ma che, inevitabilmente, hanno una stretta relazione con il vissuto personale». Ma, al di là della rappresentazione della malattia, i pazienti hanno la possibilità di sperimentare, insieme ai compagni di teatro, la costruzione di un’impresa comune, che mette in evidenza i propri limiti e nello stesso tempo le proprie risorse. «In questo modo - continua Donati - il teatro (sociale) diventa un luogo in cui la malattia e la debolezza vengono condivise, liberandosi da quella gabbia sociale (per richiamarsi alla definizione di Franco Basaglia) secondo la quale il non essere allineati non è parte del nostro vivere comune. Nel teatro sociale, potremmo dire, si pratica solidarietà attiva e concreta, ci si riconosce e si è riconosciuti dal pubblico, che può essere tanto quello tradizionale degli spettatori a teatro, quanto quello dei medici che “guardano” i pazienti».
Il teatro sociale, quindi, permette a ciascuno di recuperare, secondo le proprie modalità e possibilità, una dimensione emozionale, relazionale, ma lo fa - e questo è un altro aspetto centrale - senza mettere in secondo piano l’orizzonte estetico. A differenza della teatro-terapia o della danza-terapia, che si avvalgono delle arti ma la cui finalità primaria non è la confezione del prodotto artistico, il teatro sociale - sottolinea Donati - si avvale di un approccio interdisciplinare. Un team di artisti, operatori sanitari e altri professionisti che collaborano per creare un progetto che sia tanto artisticamente valido quanto socialmente significativo: «A definire il fine artistico e gli strumenti teatrali - conclude Donati - sono i registi professionisti, affiancati però da altre figure, che possono aiutare a gestire eventuali problematiche sociosanitarie».