Dal Ticino un algoritmo
per simulare la composizione
della superficie di Marte
Intervista a Federica Trudu, docente di fisica al Dipartimento tecnologie innovative. Il software da lei sviluppato aiuterà a prevedere anche le condizioni di vita dei futuri astronauti sul Pianeta rosso di Valeria Camia
“Galeotto fu il libro”, scriveva Dante Alighieri. In questo caso lo fu, invece, una mostra. Senza quella, forse Federica Trudu, docente di Fisica e Matematica numerica al Dipartimento tecnologie innovative della SUPSI e ZeroG-Nauta, non avrebbe intrapreso gli studi sulla simulazione del comportamento dei fluidi sottoposti a gravità diversa da quella terrestre; né avrebbe incontrato il professor Nikolaus Kuhn dell’Università di Basilea iniziando una collaborazione che ha portato allo sviluppo, in Canton Ticino, di REDGRAVIL, un software di fluidodinamica computazionale (usato per simulare la sedimentazione e il trasporto di materiale solido in fluidi a gravità ridotta, com’è avvenuto sul pianeta Marte 3.5 miliardi di anni fa). E magari Federica Trudu non sarebbe nemmeno stata una tra le (ancora poche) donne a compiere un volo parabolico - anzi due, decollati una volta dall’Europa e una dagli Sati Uniti - per simulare la gravità marziana e quella lunare e a raccontare alle sue studentesse e ai suoi studenti della SUPSI quell’esperienza. Ma la storia non si fa con i “ma e con i se”. Ecco, quindi, il viaggio di una donna che dalla Sardegna ora svolge la sua attività di ricerca presso la Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana.
Tutto ebbe inizio, lo abbiamo scritto, con una mostra, così determinante per l’ambito di ricerca della dottoressa Trudu. Ma, a ben vedere, il seme di quell’interesse per lo spazio la accompagnava da molto prima, come lei stessa ricorda: «Da poco ho ritrovato le foto di quando ero bambina, negli anni della scuola elementare, e ho notato che i miei costumi di carnevale erano quelli di un’astronauta. Sono sempre stata attratta dalle scienze e dalla tecnologia.» D’altra parte, poteva essere diversamente, dato che in casa Trudu, il padre è un fisico, la mamma è una matematica, la sorella un ingegnere? «Però ci fu un momento ben preciso - racconta Federica Trudu - in cui tutto mi divenne chiaro: stavo iniziando gli studi liceali, era il 1988 e i miei genitori mi accompagnarono a una mostra organizzata dall’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare a Cagliari. Erano, quelli, anni di grande fermento, in Italia. Nel 1984 Carlo Rubbia aveva vinto il Nobel per la Fisica e di lì a poco sarebbe nato il CRS4 (Centro di Ricerca, Sviluppo e Studi Superiori in Sardegna), diretto dallo stesso Rubbia e proprio sulla mia isola. Ecco, quella mostra risvegliò definitivamente il mio interesse di studi: ho scelto la fisica e non me ne sono mai più pentita!»
Federica Trudu Ingrandisci la foto
Così ottenuta la laurea in fisica presso l’Università di Cagliari («nella mia sessione di laurea - ricorda Federica Trudu - c’era un solo ragazzo e invece noi ragazze eravamo ben otto, e quasi tutte abbiamo fatto carriera scientifica»), la ricercatrice è volata qui, in Svizzera, prima presso l’EPFL, il Politecnico di Losanna, poi all’ETH di Zurigo per un Dottorato in chimica e bioscienze applicate. Al Politecnico zurighese ha approfondito gli studi in fisica computazionale, che le hanno aperto la strada all’architettura spaziale, anche se - precisa Federica Trudu - «non mi piace definirmi un architetto spaziale, perché di fatto non lo sono ancora. La figura dell’architetto spaziale è molto complessa, con una serie di competenze che comprendono l’ingegneria, le scienze, il design ma anche nozioni di project management. Non esiste un vero e proprio corso di laurea in architettura spaziale. Ci sono corsi di master che indirizzano verso il design spaziale, oppure si trovano università che offrono delle specializzazioni riguardanti le applicazioni scientifiche rivolte allo spazio. L’architettura spaziale rimane una materia in cui ci si specializza un po’ alla volta e che coinvolge tantissime discipline - dalla chimica alla fisica e architettura, appunto, ma tocca anche la matematica e l’ingegneria - le quali insieme concorrono alla progettazione di habitat spaziali, così come alla realizzazione, per esempio, di sonde e satelliti.»
Il percorso della ricercatrice verso lo spazio è partito dal microscopico: «Prima di arrivare alla SUPSI - dice - ho collaborato ad altre ricerche, e ho scritto molti codici di simulazione numerica per studiare materiali, metalli, transizioni di fase di minerali sottoposti ad alte pressioni. Insomma, tutto il mio lavoro è stato a lungo legato a fenomeni chimici o fisici a livello atomistico-molecolare e riguardanti scale di tempo molto piccole (parlo di picosecondi, pari a un millesimo di miliardesimo di secondo).» La svolta arriva, come dicevamo, grazie l’incontro con il professor Nikolaus Kuhn dell’Università di Basilea, in occasione di una conferenza dell’Agenzia Spaziale Europea, proprio a Basilea.
Ne è nato un progetto di ricerca sulla morfologia del pianeta Marte e questa ricerca ha avuto come esito la scrittura del codice di simulazione numerica REDGRAVIL (REDuced GRAvity VIrtual Laboratory): un software di fluidodinamica computazionale, che Federica Trudu ha sviluppato inizialmente per applicazioni di geomorfologia planetaria, cioè per studiare i sedimenti in gravità ridotta: «Da Marte si apprendono tantissime cose; la Terra e Marte sono due pianeti che presentano diverse similitudini, ma che, ad un certo punto, hanno avuto delle evoluzioni molto diverse. Quindi studiare il pianeta “rosso” ci potrebbe dare indicazioni sul nostro fragile clima. Il fatto è che le informazioni sono indirette, perché non abbiamo accesso alla storia, ma possiamo contare oltre che sulle immagini anche sui sedimenti. Quindi, siccome sappiamo che c’era dell’acqua su Marte e ci sono ancora effettivamente delle tracce, simulare la sedimentazione (come e dove i sedimenti, se c’è stata acqua, sono stati trasportati e dove si sono depositati con la gravità ridotta di Marte) diventa cruciale nel momento in cui si vuole identificare dei siti di atterraggio e per cercare eventuali tracce di vita».
Come si fa a simulare tutto ciò? Trudu continua: «Abbiamo utilizzato esperimenti in gravità ridotta attraverso voli parabolici, che sono organizzati da agenzie come la Novespace e Zero-G con finalità scientifiche e per l’addestramento di astronauti ESA e NASA. La durata dell’esperimento di per sé è molto breve: si ha una finestra di che va dai 20 ai 40 secondi, con l’aereo che può raggiungere un’inclinazione di oltre 45 gradi rispetto all’orizzontale». Questi voli, ai quali ha partecipato anche la ricercatrice in due occasioni, hanno appunto permesso di raccogliere dati a partire dai quali si è sviluppato il REDGRAVIL.
Oggi il software permette di modulare la gravità e simulare diversi tipi di fluidi (sia aria che acqua) in varie condizioni, ed è quindi utile per progettare, ad esempio, l’habitat degli astronauti sulla Luna o su Marte, «dove - come precisa la dottoressa Trudu - i fluidi si comportano in modo differente, il corpo reagisce in modo diverso, e anche i fluidi del corpo si ridistribuiscono in modo diverso. Ma REDGRAVIL può essere utilizzato anche per simulare il comportamento dei fluidi in ambienti chiusi, come habitat o gallerie, e per diverse applicazioni che riguardano il campo dell’ingegneria civile e la protezione dalle radiazioni spaziali. Proprio alla SUPSI sono già state condotte tre tesi su questo argomento, focalizzate sull’interfaccia grafica del software, sulla costruzione di un apparato per simulare un fiume marziano, e sull’uso del software per simulare gli esperimenti citati, ma anche molto di più, a supporto dell’industria spaziale.»
Insomma, REDGRAVIL e l’architettura spaziale in genere ci permettono di compiere un ulteriore passo verso un futuro che ci vedrà abitare altri pianeti «ed è per questo - sottolinea Federica Trudu - che è fondamentale coinvolgere le nuove generazioni, così come favorire sinergie tra discipline accademiche, a partire dalla psicologia. Tengo a ricordare, infatti, che vivere in modo prolungato in un ambiente diverso da quello terrestre richiederà una grande adattabilità psicologica, non solo preparazione fisica! Di questi temi, tra l’altro, abbiamo parlato in occasione del workshop di architettura spaziale organizzato dalla School of Disruption e più recentemente in occasione di un altro workshop dell’atelier SPACE.ARK».
Non possiamo non concludere il nostro incontro con la dottoressa Trudu senza un riferimento ai giovani: «È importantissimo informare chi si appresta a iniziare percorsi universitari sulla possibilità di intraprendere la propria formazione e muovere i primi passi nel campo dell’architettura spaziale. Quando sono entrata in aula dopo il mio ultimo volo parabolico, non sono quasi riuscita a fare lezione: le mie studentesse e i miei studenti volevano solo sapere com’era andata, cosa avevo fatto, cosa avevo scoperto. È una soddisfazione grandissima vedere così tanto interesse. Le nuove generazioni hanno una passione incredibile e vogliono apprendere. È nostro compito guidarle e incoraggiarle».