Le teorie della Fisica? Ci aiutano
a immaginare e a spiegare solo
il 5% del contenuto dell’Universo
Un ciclo di tre conferenze, ChiaroScuro, organizzato al Campus Est di Lugano dalla Facoltà di Teologia, ha cercato di aprire uno sguardo sugli avanzamenti della cosmologia moderna e sulla "materia oscura"di Cesare Alfieri
Quando il diciottenne Leopardi saliva solitario sulla cima dell’“ermo colle”, l’elemento che più di ogni altro innescava i meccanismi della sua sensibilità era la siepe. La siepe impediva al giovane Giacomo di vedere oltre, lo lasciava libero di immaginare, di immaginare in grande, di arrivare a pensare l’infinito dietro quella siepe.
Per tre lunedì dello scorso marzo, nella Biblio Agorà del Campus Est di Lugano, il ciclo di conferenze ChiaroScuro, organizzato dall’Istituto di Studi Filosofici della Facoltà di Teologia, ha tentato di trasmettere un assaggio del medesimo smarrimento, della stessa meraviglia. In ciascuna delle serate, il fisico Cesare Alfieri e un diverso filosofo della scienza hanno divulgato gli avanzamenti della cosmologia moderna, dialogando assieme sul confine fra quello che osserviamo (Chiaro), quello che si nasconde (Scuro) e su ciò che possiamo solo immaginare della natura dell’Universo.
Silvia de Bianchi, professoressa associata all’Università degli Studi di Milano e prima ospite di ChiaroScuro, ha indirizzato il nostro sguardo verso l’Universo chiaro, quello che possiamo vedere e che sappiamo “capire”, cioè ricondurre nell’alveo delle spiegazioni fornite dalla relatività generale o dalla meccanica quantistica, le teorie fisiche più solide del momento. Scopriamo così che la quasi totalità dell’informazione che ci giunge sull’Universo è veicolata dalla luce. Uno sciame di fotoni (particelle di luce) inonda continuamente la Terra, colpisce i nostri rivelatori, racconta la storia delle galassie portandoci testimonianza della storia del cosmo. Grazie alla luce possiamo vedere lontano, tanto nello spazio quanto nel tempo: i fotoni hanno infatti una velocità elevatissima, la più alta consentita dalla fisica, ma pur sempre finita. Ci vuole del tempo perché la luce prodotta da una stella a miliardi di chilometri ci raggiunga e, quando lo farà, noi avremo l’immagine di un tempo lontano.
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Guardando in quel passato scopriamo che più le stelle sono lontane da noi, più rapidamente si stanno da noi allontanando. Lo capiamo grazie all’effetto Doppler, lo stesso che ci fa sentire diversi i suoni di un’ambulanza che si avvicina o che si allontana. La luce generata dalle stelle distanti porta infatti i toni inequivocabili dell’allontanamento: le frequenze sono più basse rispetto alle stelle vicine (in gergo tecnico si dice che la luce è spostata verso il rosso).
Quando l’astronomo americano Edwin Hubble pubblicò per primo questi risultati nel 1929, l’eco filosofica della scoperta fu enorme: tanti scienziati fermamente convinti della stazionarietà di un Universo sempre uguale a sé stesso dovettero ricredersi; fra di loro c’era anche Einstein. Tuttavia, un presbitero belga, Georges Lemaître, manipolando proprio le equazioni dello stesso Einstein, mostrò come esse possano perfettamente spiegare le evidenze sperimentali di Hubble. Secondo la teoria della relatività generale infatti, la distanza media fra due punti qualunque dell’Universo può crescere nel tempo non per un loro movimento, bensì a causa dell’espansione dello spazio fra di essi. Gli oggetti sono fermi, ma si allontanano perché lo spazio si stira, come due auto parcheggiate si allontanerebbero se l’asfalto fra di loro fosse elastico e si allungasse. Questo è quanto accade ora nell’Universo.
RIAVVOLGERE LO SPAZIO? - Se lo spazio adesso si espande, possiamo intuitivamente riavvolgere il nastro della storia cosmica e pensare che in passato le distanze fossero inferiori, che l’Universo fosse più denso e per questo anche più caldo: la luce che arriva dalle regioni più antiche e remote del cosmo può confermarlo?
Dobbiamo spostarci ai Bell Labs in New Jersey e attendere il 1964 per averne la certezza sperimentale. Con un potente radiotelescopio, gli scienziati Penzias e Wilson scoprirono una luce debole e a bassissima frequenza, un fruscio radio in ogni parte del cielo: è la radiazione cosmica di fondo (cosmic microwave background, CMB). Come si ricollega questo a un Universo antico, caldo e denso? Si deve immaginare che la densità e la temperatura dell’Universo primordiale potevano essere paragonabili a quella della superficie di una stella (qualche migliaio di gradi). Tutto era un plasma incandescente, pieno di fotoni caldi che non potevano viaggiare indisturbati, in quanto collidevano in continuazione con le particelle cariche del plasma. A un dato momento, il raffreddamento dovuto all’espansione ha “spento” il plasma e per la prima volta nella storia i fotoni sono stati liberi di propagarsi. Quei fotoni hanno viaggiato per 13.8 miliardi di anni nell’Universo in espansione, raffreddandosi fino a pochi gradi sopra lo zero assoluto e arrivano ora a noi sottoforma di CMB, raccontandoci con la forza di un’evidenza sperimentale il passato incandescente del cosmo. Il fruscio che sentiamo quando cambiamo canale radio è in parte generato dai fotoni più vecchi dell’Universo.
UN LIMITE INVALICABILE - La scoperta della CMB è certamente uno dei ritrovamenti più importanti dell’umanità, ma è anche un limite invalicabile: prima c’era il plasma, e nel plasma la luce non poteva propagarsi liberamente. La radiazione di fondo è la nostra siepe che “l’ultimo orizzonte il guardo esclude”. Al di là comincia l’Universo oscuro, al centro del dialogo con Marta Pedroni, dottoranda all’Université de Genève e ospite della seconda serata di ChiaroScuro.
Nella speranza di cogliere nuovi indizi, negli ultimi decenni gli astronomi hanno scandagliato il cielo alla ricerca di disomogeneità nella distribuzione di temperatura della CMB. La mappa delle differenze (dell’ordine di qualche centimillesimo di grado) rappresenta la più feconda fonte di informazione cosmologica in nostro possesso. Innanzitutto perché esse spiegano la formazione delle galassie (se tutto fosse stato omogeneo, non ci sarebbe stato motivo per la materia di addensarsi in punti precisi) e secondariamente perché le teorie che tenevano in considerazione tutta la materia conosciuta prevedevano differenze di temperatura molto maggiori (qualche millesimo di grado). Un pezzo del puzzle sfugge, c’è una quantità di massa non rilevabile che genera gravità ma che non interagisce né con la luce, né con la materia ordinaria. La si è chiamata materia oscura, per il solo fatto che non sappiamo cosa sia. Si calcola con ragionevole precisione che sarebbe cinque volte più abbondante della materia conosciuta!
LA DENSITÀ DELL’UNIVERSO - Tuttavia non finisce qui: le mappe della CMB hanno consentito di stimare la densità dell’Universo, cioè il suo contenuto di massa (o energia, vista l’equivalenza di E = mc2) per unità di volume. Con un misto di sconcerto e imbarazzo, ci si è resi conto che sommando tutti gli atomi di tutto l’Universo assieme a tutta l’energia di tutte le interazioni che la nostra fisica più raffinata ha saputo modellizzare, si arriva a malapena al 5% della densità critica. Aggiungendo anche il contributo della materia oscura, arriviamo a poco più del 30% del contenuto energetico dell’Universo. Di cosa è fatto il 70% mancante? Di energia di cui non sappiamo nulla, e che viene spontaneo chiamare energia oscura. L’ipotesi al momento più accreditata collega l’energia oscura a un contenuto energetico intrinseco dello spazio stesso. Questa energia si comporterebbe in modo contrario alla gravità: se quest’ultima tende infatti a contrarre lo spazio, l’energia oscura lo farebbe espandere. In un meccanismo che si autoalimenta, l’energia oscura espande l’Universo creando nuovo spazio, che a sua volta aumenta l’energia oscura in un’espansione accelerata che attualmente non sembra avere freni. Se così fosse, il futuro dell’Universo sarebbe condannato a una gelida enormità di spazio vuoto, in cui le distanze siderali inibirebbero ogni interazione.
Marta Pedroni tuttavia, nel suo dare una definizione di “spiegare” in fisica e in filosofia, ha sottolineato come una vera e univoca spiegazione per l’energia oscura manchi. Per averla, dovremmo possedere una fisica che, superata la relatività generale, possa risalire al passato dell’Universo primordiale, che sappia comprendere il suo comportamento a densità pressoché infinite, nelle condizioni di cosiddetta “singolarità” del Big Bang o dei buchi neri.
IN ATTESA DI NUOVE TEORIE - Del bisogno di una nuova fisica ha parlato, dunque, Enrico Cinti, ricercatore all’Università di Amsterdam e ospite della serata conclusiva di ChiaroScuro. La necessità è chiara: con gli strumenti teorici a nostra disposizione, spieghiamo a fatica il 5% dell’Universo e possiamo solo avvicinarci al racconto del suo inizio, senza raggiungerlo mai. Inoltre, le due teorie di maggior successo, relatività e meccanica quantistica, sono fra loro incompatibili. La prima spiega i fenomeni cosmologici, la seconda quelli a scala atomica e subatomica. Nelle singolarità avvengono fenomeni cosmologici a scala subatomica, che nessuna delle due è in grado di spiegare, segno inequivocabile dell’incompletezza della conoscenza attuale.
Cinti ha introdotto alcune delle teorie che si pongono il nobile scopo di completare la nostra comprensione. Si parla di stringhe, di gravità quantistica, di schiume di spin, di mondi decadimensionali, di multiversi. Si veleggia alti nel mondo di raffinate ma complicatissime ipotesi matematiche. Da oltre mezzo secolo si sviluppano teorie non confermate, spesso in disaccordo fra loro: nessuno può dire chi abbia ragione e l’impressione è che la fisica teorica annaspi. L’impossibilità di una verifica sperimentale rende il terreno paludoso: si specula che per poter sperare di avere una convalida di queste teorie dovremmo aumentare il raggio dell’acceleratore del CERN di Ginevra fino a farlo combaciare con la galassia.
La sensazione è che le frontiere della fisica teorica si siano spinte troppo oltre e abbiano dovuto abbandonare, seppur controvoglia, l’alveo rassicurante del metodo scientifico, quello che dai tempi di Galileo rende così salde e inattaccabili le scienze sperimentali. Sembra la rivincita della metafisica sulla fisica: nelle ipotesi teoriche contemporanee si passa senza accorgersene da una all’altra, con una disinvoltura che avrebbe fatto inorridire i positivisti del XIX secolo. La speranza che questa generazione possa vedere un avanzamento inoppugnabile della fisica teorica, che possa scoprire la natura di materia e energia oscura, appare flebile.
A questo punto sorge spontaneo domandarsi se l’assunzione sottesa alla ricerca di queste nuove teorie, che cioè l’umanità possa avanzare indefinitamente nella sua comprensione della natura, sia una convinzione giustificata o ingenua arroganza. Il dubbio è lecito: nessuno garantisce che noi, parte del tutto, saremo mai in grado di capire il tutto.
Pur essendo stata posta, a ChiaroScuro la domanda è rimasta inevasa. Arrovellandosi sulle possibili risposte, quello che viene in mente è la meraviglia di un ragazzino che riesce a immaginarsi l’infinito dietro una siepe.