Medical Humanities

“Arricchire” la cultura
dei curanti: la buona medicina
passa (molto) anche da qui

Lunedì 29 gennaio 2024 circa 13 minuti di lettura
Per 33 anni Roberto Malacrida è stato primario di medicina intensiva negli ospedali di Bellinzona e Lugano. Una grande foto, su una parete degli uffici della Fondazione Sasso Corbaro, ricorda quel periodo (foto di Chiara Micci / Garbani)
Per 33 anni Roberto Malacrida è stato primario di medicina intensiva negli ospedali di Bellinzona e Lugano. Una grande foto, su una parete degli uffici della Fondazione Sasso Corbaro, ricorda quel periodo (foto di Chiara Micci / Garbani)

A colloquio con Roberto Malacrida (Fondazione Sasso Corbaro). In un mondo sempre più dominato dalla tecnologia, resta fondamentale l’intreccio fra scienza, discipline umanistiche, etica e anche cinema
di Antonio Armano

All’ingresso della Fondazione Sasso Corbaro, due locandine colpiscono la mia attenzione: in una si pubblicizza una serata dedicata al film "Se mi lasci ti cancello", e nell’altra l’incontro dell’Accademia di Bioetica che si tiene questa sera stessa, e qui il mio occhio scivola verso la parte finale in cui si annuncia la discussione di un caso clinico. "Se mi lasci ti cancello" è la traduzione brutale e forse un po’ banale di un titolo che in lingua originale suona decisamente meglio, "Eternal sunshine of the spotless mind" (un verso di Alexander Pope). Il film parla di un’apparecchiatura digitale per cancellare i ricordi delle storie d’amore quando finiscono. Può essere uno spunto per rompere il ghiaccio, in questa fredda sera a Bellinzona, con Roberto Malacrida, responsabile delle relazioni istituzionali della Fondazione, che ha creato insieme a un gruppo di amici alla fine degli anni ’80. Dura occuparsi di Medical Humanities (cioè dell’intreccio fra le discipline mediche e quelle umanistiche) in un tempo in cui la tecnologia occupa uno spazio sempre più grande nelle nostre vite in generale e nella medicina in particolare.

«Quando ho studiato medicina, a Basilea alla fine degli anni ’70, ormai oltre cinquanta anni fa, c’era molto più spazio per gli aspetti clinici umanistici - dice Malacrida, seduto a un tavolo bianco, con alle spalle una vasta libreria, dono di un cittadino preoccupato per la sorte dei propri volumi in un dopo-di-noi cartaceo (si vedono titoli come "Nemesi medica. L’espropriazione della salute" di Ivan Illich). - Se penso alla genetica o alla diagnostica avanzata, vedo che la tecnologia sta occupando uno spazio e un’importanza sempre più grande. Siccome le risorse sono limitate, nella ricerca come nella cura, se un elemento aumenta il proprio spazio lo fa a scapito di altri. Ma d’altra parte l’effetto è stato positivo. Le biotecnologie hanno avuto un impatto benefico sulla salute. Si vive più a lungo e, in genere, meglio». 

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Malacrida si occupa di Medical Humanities da un quarto di secolo, ma non parla da un iperuranio teorico. Ha una lunga esperienza in prima linea, sulla linea di confine tra la vita e la morte: «Sono stato primario di medicina intensiva all’Ospedale Regionale di Bellinzona per quindici anni e per diciotto ho ricoperto lo stesso ruolo a Lugano - racconta. - Ho avuto modo di curare circa quarantamila pazienti. Naturalmente non da solo! Erano pazienti gravi, spesso intubati. Nel momento più critico, quando non possono esprimersi perché in coma naturale o artificiale, la comunicazione passa per i familiari. Anche dal punto di vista etico, sono loro i responsabili. Se il paziente non ha lasciato precise volontà, devono scegliere per lui». 

Nel Rinascimento il termine umanesimo, coniato in quell’era, indicava tutto ciò che non era sovrumano, metafisica, religione, dunque anche la scienza e la tecnica. Ma oggi, al tempo del dominio della scienza e soprattutto della tecnica, che cosa sono le Medical Humanities?

«Dal punto di vista storico, una cinquantina di anni fa è nato a Galveston nel Texas un primo centro accademico per lo studio e l’insegnamento delle Medical Humanities” - spiega Malacrida. - L’idea era che gli studenti di medicina, data la loro giovane età, non avessero un’esperienza diretta della malattia e dunque potessero trarre beneficio dalla lettura dei grandi testi letterari. "La montagna incantata" o magica, che dir si voglia. Io sono cresciuto con "La montagna incantata". Quello era il classico dei classici. Poi c’era "La peste" di Camus. La morte del bambino, l’innocente».
Gli storici della medicina notano ironicamente come Thomas Mann abbia fatto morire di colera il protagonista di "Morte a Venezia" senza spasmi intestinali, comodamente seduto in spiaggia. Ora anche la medicina si fa letteratura con testi che hanno un rigore scientifico come "Spillover", il reportage narrativo di David Quamen sulle zoonosi (il passaggio di malattie infettive dagli animali agli esseri umani), diventato un bestseller durante il covid. 

«Sì, ma non c’è solo la letteratura - nota Malacrida. - Noi abbiamo avuto come consulente una specialista in storia del cinema e siamo ben documentati anche da quel lato. Abbiamo sette-ottomila libri e un migliaio di film. Un altro modo di vedere le medical humanities è considerare altri aspetti, per esempio psicologici, filosofici, giuridici, economici, di salute pubblica, etnologici. Discipline che stanno attorno alla medicina come tale. Posto che l’etica sta al centro e il resto intorno, per compiere la giusta scelta a volte non basta l’aspetto clinico-filosofico, ma occorre tenere conto anche di altri fattori».

Immagino che oggi l’antropologia, l’elemento etnologico da lei citato, possa entrare in campo. Con l’immigrazione in particolare.

«L’immigrazione, ma anche la disabilità e la diversità nell’identità di genere, generano nuove prospettive, nuovi punti di vista sulle scelte» - spiega Malacrida, che nel flusso del discorso sembra trovare un punto focale molto importante e scandisce quasi le parole: «Abbiamo sempre pensato che arricchire la cultura dei curanti, attraverso la letteratura, il cinema, significasse aiutarli a comunicare meglio con i pazienti. Oggi conta soprattutto capire la cultura dell’altro. La cultura del diverso».

La letteratura è quindi fuori gioco? Viene in mente un libro pionieristico, "Camere separate", l’ultimo romanzo di Pier Vittorio Tondelli, autore morto di aids nel 1991, il cui protagonista si sente escluso dalla fase terminale della vita del partner, perché non ha alcun titolo, secondo le normative dell’epoca, per farne parte. Malacrida cita invece "All’amico che non mi ha salvato la vita", l’autobiografia di Hervé Guibert, critico fotografico del quotidiano Le Monde, malato di aids e deceduto lo stesso anno di Tondelli, dove compare la figura di Muzil, ispirata a Michel Focault. Vale a dire i poli opposti nella concezione del fine vita: da una parte l’esposizione non solo artistica del corpo infetto e decadente; e dall’altra la scelta di ritirarsi. Al di là delle grandi scelte etiche legate a snodi cruciali, esiste un’attenzione per il modo in cui il paziente deve essere trattato nella quotidianità della malattia?

IL RUOLO FONDAMENTALE DELL’EMPATIA - «Bisogna considerare la sofferenza del paziente come l’aspetto più importante - dice Malacrida. - Bisogna usare l’empatia, una parola oggi molto di moda che può avere molte declinazioni. La filosofa Laura Boella ha scritto un bel libro intitolato "Le empatie". Al plurale. Noi abbiamo cercato di lavorare su questo concetto, davvero molto sensibile. C’è chi si spinge fino a dire che bisogna mettersi nei panni del paziente e chi mette l’accento sulla giusta distanza. Gradi diversi di empatia».  

Empatia non solo nelle scelte drammatiche, ma anche nella quotidianità. Nelle facoltà di medicina della Svizzera ci sono corsi per formare gli studenti sotto questi aspetti?

«Non ancora a sufficienza, direi - risponde Malacrida. - Ci sono corsi di educazione all’etica. Incentrati sulla parità nel rapporto tra curante e paziente. Dove si sottolinea l’importanza della autonomia dell’ammalato. Soprattutto da un punto di vista giuridico, il rispetto del no del paziente: non posso toccare il suo corpo, fare un prelievo e tantomeno un intervento chirurgico, senza il consenso. Ma come può essere informato il consenso? Se dico troppo, spavento, se dico poco, faccio mancare degli elementi».

LE DIFFICILI DECISIONI SUL COVID - Il discorso tocca il tema inevitabile del covid. La pandemia, racconta Malacrida, ha posto l’accento sul lato collettivo della scelta, sullo sfondo sociale del rapporto curante-paziente. Nelle Case per anziani in Svizzera, ma naturalmente anche altrove, sovente si è tolta la libertà ai degenti di uscire dalle camere per mesi. Ci sono stati direttori che hanno interpretato le direttive in modo restrittivo instaurando un regime "carcerario” e altri più concessivi che hanno forse causato più rischi di vita per gli ospiti dell’istituto. La questione del bene collettivo è tornata ad assumere un rilievo notevole. Lo stesso si può dire per i vaccini.

«Ci sono state almeno due votazioni che hanno confermato a larga maggioranza le misure del governo svizzero sulle vaccinazioni - ricorda Malacrida. - Si è chiarito bene che cosa voleva la maggioranza della popolazione. Subentra in questi casi un tema di comunicazione. Quando i benefici di una terapia non vengono spiegati in modo efficace, la gente si rivolge a cure alternative. Entra in gioco anche la politica e il ruolo delle Big Pharma».

Senza addentrarci nei risvolti psichiatrici di negazionismo, complottismo e così via, possiamo affermare che il covid ha esacerbato il disagio psichico, in particolare tra i giovani. Disturbi alimentari, ansia, attacchi di panico e altro ancora. I medici sono attrezzati per confrontarsi con i pazienti che ne soffrono? Intendo non gli psichiatri, ma gli altri medici che hanno a che fare con pazienti non di rado colpiti da problemi psichici? 

«In ogni caso noi medici siamo tendenzialmente ignoranti rispetto alla disabilità mentale - ammette Malacrida. - Non solo per una mancanza di insegnamento durante gli studi. Quando ci confrontiamo con un paziente con una limitata capacità di discernimento, generalmente chiamiamo lo psichiatra. Ci sono correnti di pensiero che tendono a rifiutare il concetto di disabilità, asserendo che è la società a essere inadeguata. Oggigiorno, si discute in modo approfondito sulla opportunità di sterilizzare le donne con una grave e duratura disabilità mentale. L’ONU ha promulgato direttive molto restrittive. Ma la questione è molto complessa. Chi rappresenta queste persone nelle scelte che riguardano un simile ambito? Chi si occuperà dei figli? La Svizzera sta tentando di creare una legge che rispetti la convenzione fatta con l’ONU con alcune eccezioni».

IL CINEMA RIAPRE ANTICHE FERITE - Si torna a parlare di cinema. È da poco uscito il film "Lubo", di Giorgio Diritti, sulle politiche della Svizzera nei confronti degli zingari jenish, dall’allontanamento coatto dei figli, messi in istituti, dati in adozione, fino alla sterilizzazione. Il protagonista, Franz Rogowski, è di Friburgo, figlio di un pediatra e tra l’altro affetto da mesoprosoposchisi del labbro superiore, detto in modo politicamente scorretto labbro leporino, elemento che lo rende ancora più struggente in quel ruolo.

«In quest’ambito, noi svizzeri abbiamo una tradizione moralmente pesante - racconta Malacrida. - Anche nei confronti di madri molto povere e sole, famiglie con problemi. L’associazione Pro Juventute le separava dai figli. Come racconta il film, che è un film tragico perché la cosa è durata fino a pochi decenni fa». 

DIFFERENTI VISIONI RELIGIOSE - Quanto incide la mentalità, calvinista o cattolica, sulle scelte in Svizzera? «I calvinisti pongono l’accento all’autonomia. I cattolici sul rapporto con la Chiesa, secondo una visione legata al valore della sacralità del corpo - riflette Malacrida. - Ho insegnato l’etica clinica e le Medical Humanities anche alle Università di Ginevra e Friburgo e sovente bisognava ricordare agli studenti che non esiste solo il principio dell’autonomia pura o quella relazionale, ma anche quello della beneficienza e che occorre soppesarli entrambi con cura». 

Se in Svizzera un aspetto etico delicato e controverso riguarda la sterilizzazione delle donne disabili senza capacità di discernimento persistente, in Italia il dibattito etico resta legato al problema dell’eutanasia. Anche in Svizzera l’eutanasia attiva è proibita, ma c’è da cent’anni la possibilità di ricorrere al suicidio assistito, incardinato nella costituzione, a salvaguardia di chi aiuta a morire qualcuno. Spiega Malacrida: «L’atto deve comunque essere compiuto dalla persona stessa. Se il paziente non è in grado, siamo di fronte a un dilemma etico maggiore. In realtà c’è un’eutanasia attiva “casalinga”. Diffusa e poco considerata. Oppure la sedazione palliativa. Quando si dosa la morfina per attenuare il dolore senza considerare se possa accorciare la vita. Una cosiddetta eutanasia indiretta. È un problema delicato. Bisogna rispettare i desideri dei pazienti, ma anche le difficoltà dei curanti. Da anni organizziamo un percorso Medical Humanities che si intitola "Curare i curanti". Se i curanti sono curati bene, curano meglio». 

L’OBIEZIONE DI COSCIENZA - Esiste il problema dell’obiezione di coscienza in Svizzera? «Non come in Italia. Non c’è confronto - afferma Malacrida. - Soprattutto nell’Italia del sud in alcuni ospedali si arriva a percentuali dell’ottanta per cento di ginecologi obiettori. È una questione di deontologia, di onestà intellettuale. È comprensibile che un medico non ami effettuare interruzioni di gravidanza e dunque si sottragga. Ma dopo che cosa succede? Ci sono soprattutto colleghe che, per rispetto della legge o della volontà delle pazienti, si accollano il compito e passano la giornata a praticare interruzioni, finendo a raggiungere uno stato di "burn out". Questo succede. In Svizzera è diverso perché ogni ospedale pubblico deve avere un numero di ginecologi sufficiente a garantire il diritto di aborto.  La questione viene risolta a monte».

La Svizzera ha molti curanti stranieri... 

«Arrivano molti medici e molti infermieri dall’Italia e questo pone un problema etico legato alla giustizia distributiva. Perché la Svizzera importa dall’Italia, l’Italia dalla Romania, la Romania dall’Ucraina e così via, e l’ultimo Paese, in genere il più povero, rimane sguarnito, pur avendo destinato molte risorse economiche per la formazione medica dei propri cittadini».

LA COMMISSIONE DI ETICA CLINICA - La parte finale di ogni modulo dell’Accademia di Bioetica è dedicata, come si diceva, a un caso concreto. Vengono presentati, spiega Malacrida, casi di consulenza approdati alla Commissione di etica clinica per le persone con disabilità, la COMED. È il momento in cui i corsisti si sentono maggiormente coinvolti: «Non dico che non interessi il problema filosofico teorico per esempio dell’autodeterminazione, della beneficenza o della non maleficenza, ma si vuole imparare come si arriva a una scelta corretta nel caso concreto - racconta Malacrida. - Se c’era una critica alla fine di ogni corso negli ultimi venti anni era quella di avere lasciato troppo poco tempo alla discussione dei casi clinici. Sono momenti molto coinvolgenti, si discute animatamente, si può anche litigare».

Sovente si arriva a parlare dell’allungamento della vita media, del rispetto della dignità dei grandi anziani: «È un tema delicato sotto diversi punti di vista - conclude Malacrida. - La presenza di un numero crescente di cittadini molto anziani e molto debilitati pone problemi seri alla nostra società. Esiste un limite oltre il quale prolungare la vita significa prolungare soltanto il fine-vita, l’agonia, e poi esiste anche il problema delle capacità cognitive, della demenza senile, della malattia di Alzheimer. Sono temi delicati non solo dal punto di vista etico, ma anche socio-politico, anche perché l’allungamento della vita dipende dal benessere, o dalla povertà, di una società, dei suoi cittadini. Dove c’è una forbice larga tra ricchi e poveri c’è anche un’aspettativa di vita più bassa per le classi meno abbienti».

La morte è dunque classista – altro che "’A livella" di Totò - e la povertà è un “vizio” peggiore del fumo e dell’alcol?

«Molto probabilmente è proprio così, ma è un tema talmente spinoso che la politica e anche la medicina facilmente censurano».