cultura e salute

Parole che curano, lezione 5
Rita Charon: «Fondamentale il ruolo della medicina narrativa»

Lunedì 27 novembre 2023 circa 8 minuti di lettura In deutscher Sprache
Rita Charon, fondatrice e direttrice esecutiva del Programma di medicina narrativa presso la Columbia University di New York
Rita Charon, fondatrice e direttrice esecutiva del Programma di medicina narrativa presso la Columbia University di New York

di Valeria Camia

La signora Lambert (non il suo vero nome) è una donna di 33 anni affetta dalla malattia di Charcot-Marie-Tooth. Anche sua nonna, sua madre, due zie e tre dei suoi quattro fratelli hanno la stessa malattia invalidante. Le sue due nipoti hanno mostrato segni della malattia già all’età di 2 anni. Nonostante sia costretta su una sedia a rotelle con un progressivo deterioramento dell’uso delle braccia e delle mani, la paziente conduce una vita piena di passione e responsabilità.
"Come sta Phillip?" - chiede il medico durante una visita di routine. All’età di 7 anni, il figlio della signora Lambert è vivace, intelligente e rappresenta il centro, nonché la fonte di significato, del mondo della paziente. La signora risponde: Phillip ha sviluppato debolezza sia nei piedi che nelle gambe, che provoca un particolare battito dei piedi quando corre.
La paziente sa bene cosa significa ciò, anche prima che i test neurologici confermino la diagnosi. La sua vigilanza, tinta di paura, l’aveva portata a osservare suo figlio ogni giorno per 7 anni, osando credere che il bambino  fosse sfuggito al destino della sua famiglia. Ora è avvolta dalla tristezza. "È più difficile essere stati sani per 7 anni, e poi ammalarsi - dice. - Come lo affronterà?” Anche il medico è avvolto dalla tristezza, mentre ascolta la sua paziente, misurando l’entità della sua perdita…

Inizia così un articolo pubblicato ormai due decenni fa sulla rivista JAMA e considerato uno dei testi fondanti della medicina narrativa. L’autrice è Rita Charon, medico internista, fondatrice e direttrice esecutiva del Programma di medicina narrativa presso la Columbia University di New York, che da anni rivendica la centralità, in medicina, della narrazione, da parte dei pazienti, della “propria” malattia nel percorso terapeutico.
Ventidue anni dopo la pubblicazione di quell’articolo, la partecipazione attiva dei soggetti coinvolti (quindi dai pazienti al personale medico-sanitario) nella cura sta acquisendo un ruolo da protagonista nella medicina contemporanea. In virtù di quale motivo e prova scientifica? Perché comprendere appieno le implicazioni che la malattia può avere per i malati, e tutte le sfumature che può assumere, fa bene ai pazienti e anche ai medici? Per affrontare queste domande, gli organizzatori del corso “Parole che curano” hanno invitato Rita Charon a intervenire in occasione della lezione pubblica del 27 novembre. Si tratta del quinto incontro del corso, promosso al Campus est di Lugano (inizio alle 18) dalla Facoltà di scienze biomediche dell’Università della Svizzera italiana (USI) con la Divisione Cultura della Città di Lugano e con IBSA Foundation per la ricerca scientifica, e con la collaborazione artistica del LAC (Lugano Arte e Cultura).

Professoressa Charon, come è nato in lei il bisogno di cambiare, fondamentalmente, l’approccio alla cura mettendo al centro “le parole”?

«Rispondo facilmente a questa domanda. Le “parole” sono state per me uno strumento importante per raccogliere e interpretare informazioni sull’esperienza dei pazienti. A partire dalla mia esperienza di medico intuivo che i sintomi hanno un significato e questo significato può essere diverso da persona a persona. I pazienti tornavano da me, anche dopo mesi, e ho capito che quello che si aspettavano era che io ascoltassi ciò che mi raccontavano. Sono sempre stata una grande lettrice e ho iniziato a fare con i pazienti quello che faccio come lettrice: leggere le loro storie, anche complesse, seguendo il tempo, i, salti temporali, le metafore, captando quindi quando una storia ne intende svelare, in realtà un’altra. D’altra parte, gli anni di studi in Medicina non mi avevano insegnato nulla sulla teoria narrativa o sugli atti narrativi. Così ho ottenuto un dottorato in letteratura inglese per imparare a individuare - nella mia attività clinica - elementi che non emergono nel corso di una normale anamnesi strutturata. In che altro modo potrei conoscere cosa cerca il paziente, quale tipo di cura che meglio risponde alle sue esigenze?» 

Ci fa qualche esempio concreto di come, nella pratica, la medicina narrativa sia benefica per i pazienti e per i medici? 

«Una delle primissime domande che pongo ai miei pazienti è questa: “cosa pensi che io debba sapere su di te per essere il tuo medico?”. Emergono elementi importanti, in risposta a tale quesito, che condizionano la cura. Ricordo una paziente che soffriva di diabete sin dall’infanzia: entrò nel mio ufficio e la incoraggiai a condividere la sua storia, piuttosto che addentrarmi immediatamente nei dettagli medici e prescrivere vari esami. Dopo alcuni momenti, questa paziente iniziò a raccontarmi della frustrazione derivante da come il diabete aveva avuto, per lei, pesanti conseguenze, portando ad esempio a frequenti ricoveri ospedalieri. Poi dichiarò che ciò di cui aveva veramente bisogno era una nuova dentiera. Il diabete, infatti, aveva aggravato la sua malattia gengivale, causando la perdita di tutti i denti superiori (e una protesi mal realizzata si aggiungeva alle sue sfide). Le conseguenze si estendevano oltre il disagio fisico: la paziente si lamentava, in particolare. del suo isolamento, a causa dei problemi dentali, che le rendevano molto più difficile socializzare.
Ecco, la mia cura partì da quel bisogno. Mi diedi da fare e ottenni per la donna un appuntamento dentistico, in modo da affrontare quell’aspetto trascurato, ma così centrale per il suo benessere, oltre che per la sua salute. La rividi alcuni mesi dopo. Il suo diabete era migliorato, e lei aveva ripreso a uscire. Aveva anche avviato un’attività». 

Dunque la medicina narrativa, in aggiunta alla medicina basata sull’evidenza, permette una personalizzazione della cura?

«Certo. Mi faccia però prima precisare che nessuno mette in discussione la medicina basata su prove scientifiche rigorose. L’evidenza è fondamentale. A partire da questo, possiamo dire che la medicina narrativa cerca di espandere le forme di evidenza che meritano attenzione. Per tornare all’esempio della signora diabetica della quale ho parlato poc’anzi, naturalmente è fondamentale conoscere il livello di zucchero nel sangue, che tipo di insulina sta prendendo e come funziona il suo pancreas. Ma per “curare” questo tipo di malattie, è necessario anche tenere conto dell’evidenza narrativa che proviene dal racconto dei pazienti, da quello che dicono attraverso le loro parole, azioni o anche con l’espressione facciale. Attraverso questo “focus” sulla narrazione si rende possibile una migliore definizione dei bisogni dei pazienti. 
Le propongo un altro esempio: prendiamo il contesto urbano dove vive un paziente, se è una periferia o un centro cittadino, se è un quartiere pericoloso o altro. È importante avere queste informazioni nel momento in cui prescrivo, come medico, di fare esercizio fisico (è sicuro correre per strada o sussiste il pericolo di essere aggredito?): Lo stesso vale per quanto riguarda un’alimentazione sana (ci sono supermercati di qualità nel luogo dove vive il paziente?). Questo per dire che non sono soltanto i test biochimici del sangue e le risonanze magnetiche a essere determinanti nella cura».

A livello internazionale quale attenzione riceve la medicina narrativa oggi?

«C’è un vasto interesse. Esistono comunità in Europa orientale e occidentale, nel Regno Unito, in Turchia, Grecia, Polonia, Cina, Giappone, Corea. E potrei continuare. Non esiste un protocollo o metodo “universale” di medicina narrativa e ogni specialista cerca di comprendere ciò che davvero conta per le persone. Tuttavia, fondamentalmente quello che tutti noi operatori sanitari attenti alla medicina narrativa condividiamo è essere persone aperte alla conoscenza creativa, all’immaginazione, alla cultura, ai resoconti delle persone singole. Dobbiamo adoperarci per leggere biografie e essere disponibili ad ascoltare le persone quando esse parlare di sé stesse, dei loro progetti futuri, preoccupazioni e vissuti. Ci tengo a precisare, se non fosse chiaro a sufficienza, che non si tratta di un ascolto aneddotico, come quello che si fa con un gruppo di amici durante una cena! Stiamo parlando di un paziente che racconta la storia che sta vivendo, la storia della sua vita, e di un medico che sa ascoltare e capisce i significati (anche i più nascosti) delle cose narrate, ne coglie le scelte linguistiche, la dizione, le metafore usate».

Le immagini e le espressioni con le quali arricchiamo i nostri racconti sono anche influenzate dal contesto culturale (e linguistico) in cui ci muoviamo. Come è possibile generalizzare la medicina narrativa?

«Non si può. I lavori di medicina narrativa in corso in Italia, Francia, Polonia, Finlandia e Corea, sono ovviamente molto diversi tra loro, perché le lingue sono diverse, le culture sono diverse, l’assistenza sanitaria è diversa. Tuttavia in ciascuno dei (diversi) contesti geografici e culturali in cui è applicata, la “medicina narrativa” arricchisce l’atto medico grazie ai racconti dei pazienti, dei medici, degli infermieri e dei diversi operatori sanitari, tesi a cogliere tanto le rappresentazioni emotive quanto quelle tecniche e scientifiche delle malattie».