Pandemia e cultura:
la ricetta di Philippe Kern
per uscirne “risanati”
di Valeria Camia
Ha lanciato l’allarme nel giugno scorso, con un rapporto per il Consiglio d’Europa sui danni gravissimi che la pandemia sta infliggendo anche alle attività culturali, intitolato “The impact of the COVID-19 pandemic on the Cultural and Creative Sector”. Ma Philippe Kern, fondatore del centro di ricerca KEA European Affairs, con sede a Bruxelles, non ha poi perso l’occasione per ribadire anche in diverse altre sedi la necessità di sostenere la cultura in questo periodo così difficile. E anche durante il webinar organizzato dalla Divisione Cultura della Città di Lugano e dalla Fondazione IBSA, lo scorso 3 novembre, nell’ambito del progetto Cultura e Salute, si è comportato come un infaticabile “combattente” in favore di una maggiore attenzione verso un settore, quello culturale, appunto, che spesso non viene valutato per quello che è: un motore importantissimo per l’economia, oltre che un fondamentale fattore di coesione sociale, di riconoscimento delle diverse identità e, naturalmente, un’occasione di divertimento e di arricchimento intellettuale, che fa molto bene anche alla salute. Un settore, adesso, in caduta libera. Alcune cifre? Secondo il rapporto della KEA, alcuni comparti del grande mondo della produzione culturale hanno perso nel secondo trimestre del 2020 fino all’80 per cento del loro fatturato, e la situazione, aggiungiamo noi, è ulteriormente peggiorata in questi ultimi mesi.
Dottor Kern, cosa ne sarà della cultura a pandemia finita?
«L’augurio - risponde Kern - è che gli operatori e le altre persone che, a vario titolo, si muovono nel campo della cultura riescano ad accrescere il proprio potere di negoziazione a livello nazionale, regionale e soprattutto locale e che, facendo comprendere il bisogno che si ha della cultura, trovino proposte concrete, creative e innovative da proporre alle istituzioni, non solo al pubblico».
Questi mesi segnati dalla pandemia stanno comunque mostrando numerose iniziative di solidarietà e di coesione, grazie anche ai nuovi modi di comunicare...
«È vero, stiamo facendo esperienza di come la cultura sia capace di mobilizzare e di unire le persone, lontane ma vicine, attraverso forme, complessità e rappresentazioni musicali, grafiche e artistiche differenti. E poiché la cultura si alimenta grazie al dialogo anche fra mondi diversi, che si rappresentano, è possibile immaginare che l’arte, la musica e le varie altre forme artistico-culturali favoriscano processi di integrazione, comprensione empatica, conoscenza reciproca e solidarietà tra i Paesi. In altre parole, le varie proposte e attività culturali che hanno coinvolto in remoto artisti, musicisti, registi, e non solo, da diversi Paesi, diventano un tramite per portare sollievo al pubblico e, allo stesso tempo, aiutano la creazione di una “storia” condivisa.
Se pensiamo, poi, al caso specifico dell’Unione Europa, gli scambi culturali favoriti in questi mesi dalla tecnologia possono creare condizioni favorevoli per la coesione europea e, arriverei a dire, anche per la creazione di un’identità condivisa nell’UE, in molto più profondo e duraturo di quanto siano in grado fare le logiche di mercato o discorsi valoriali poco concreti».
In che modo le nuove forme artistiche e culturali che superano le barriere fisiche (attraverso lo streaming, soprattutto) rappresentano una sfida per i luoghi tradizionali della cultura?
«La pandemia, rendendo impossibile eventi dal vivo e con la presenza di un ampio pubblico, ha favorito diverse tipologie di offerte (pensiamo a Spotify e Netflix) che già esistevano e venivano usate. È necessario che se ne prenda atto. Le generazioni più giovani, ad esempio, seguono eventi, che siano musicali o delle arti performative, tramite i social e lo smartphone, ma lo fanno da prima della pandemia. Per i luoghi “tradizionali” della cultura (cinema, teatri, sale da concerto, e così via), le domande da porsi, quindi, riguardano come riuscire ad attrarre nuovi o altri fruitori della cultura, tenendo conto della nuova eterogeneità delle persone che si possono raggiungere in streaming. Se andare a teatro è tradizionalmente considerato qualche cosa di elitario, per le classi colte, ecco che la grande sfida per la cultura tradizionale è proprio quella di riuscire a raggiungere anche un pubblico più ampio e variegato. Lo stesso discorso vale per i musei, che potrebbero aumentare il potenziale di attrazione con l’uso di esposizioni facendo uso della realtà virtuale. In ultima analisi, attraverso nuove forme di distribuzione e fruizione, alla cultura è data l’opportunità di divenire inclusiva, giovare ai più e così abbattere le barriere socio-culturali».
Ma gli artisti e gli operatori del settore culturale sono consapevoli della funzione sociale che svolgono e del loro essere una componente fondamentale anche del settore che si occupa della salute, in senso ampio?
«Purtroppo oggi questa consapevolezza è poco radicata. Anzitutto i settori culturali e creativi non sono invitati ai tavoli della politica e non sono sufficientemente coinvolti nei loro piani istituzionali riguardanti il futuro e il benessere. Chi è occupato nel campo dello spettacolo, della musica e delle arti in genere è considerato, troppo spesso, un “semplice” fornitore di intrattenimento, del quale si può fare a meno. Inoltre alle persone che si muovono nel mondo della cultura manca ancora quell’auto-consapevolezza del proprio ruolo che invece è presente in altre categorie lavorative, dai medici, agli scienziati, agli economisti. Anche per tale motivo queste persone faticano a far valere il ruolo della cultura affiancandola alla sanità pubblica, considerandola indispensabile al bene collettivo».
Qualcosa, però, si è mosso...
«A livello europeo è apprezzabile quanto previsto dal Recovery and Resilience Facility, il fondo che è stato messo a disposizione dalla UE anche per attività legate al supporto della cultura nei Paesi membri colpiti dal coronavirus: un segno del riconoscimento, da parte delle istituzioni, dell’importanza della cultura per le persone, tanto quelle impiegate nel settore, quanto quelle che fanno parte del pubblico. Anche in Svizzera, nella seduta del 18 dicembre 2020, il Consiglio federale ha approvato una modifica dell’ordinanza COVID-19 cultura affinché anche gli operatori culturali possano percepire un’indennità per perdita di guadagno. Si deve ancora fare molto, ma sono passi significativi».
Philippe Kern, fondatore del centro di ricerca KEA European Affairs Ingrandisci la foto