cultura e salute

Così l’arte può andare in aiuto
agli studenti di medicina

Mercoledì 30 marzo 2022 circa 8 minuti di lettura In deutscher Sprache

di Valeria Camia

Nessuno di noi vorrebbe essere curato da un medico che soffre di burnout o che non prende tempo, tutto il tempo necessario, per ascoltarci e vagliare i sintomi che il nostro corpo manifesta. E invece, alzi la mano chi non si è trovato, almeno una volta, nella spiacevole situazione di uscire da uno studio medico un po’ arrabbiato a fronte della velocità con la quale il dottore o la dottoressa lo ha visitato! Ebbene, buone notizie all’orizzonte: c’è una medicina speciale in grado di aiutare i curanti, rendendoli più empatici e rafforzando la loro capacità di osservazione. Si chiama “arte”.

Negli Stati Uniti è in uso già da diversi anni. In Svizzera non ancora, mentre in Italia dal 2014 viene applicata grazie al lavoro di Vincenza Ferrara, direttrice del Laboratorio di Arte e Medical Humanities della Facoltà di Farmacia e Medicina all’Università La Sapienza di Roma, nonché responsabile scientifica e coordinatrice del Progetto VTS (Visual Thinking Strategies) Italia

Un progetto, quello di Ferrara, pionieristico e presentato nel Canton Ticino in occasione dell’incontro in streaming del 15 marzo 2022 intitolato “Il ruolo dell’arte nell’educazione medica”, e organizzato dalla Fondazione Sasso Corbaro. Con il saluto introduttivo di Giovanni Pedrazzini, professore e decano della Facoltà di scienze biomediche dell’Università della Svizzera Italiana, la serata è stata aperta dalle riflessioni di Enzo Grossi, docente di “Cultura e Salute” all’Università di Torino e consulente scientifico presso la Fondazione Bracco e la IBSA Foundation per la ricerca scientifica. Stiamo vivendo un momento molto importante e “bellissimo” per la medicina, ha precisato Grossi: «Ci stiamo rendendo conto del legame tra arte e salute». Insomma, non siamo solo gambe e braccia, il che significa che ciascuno di noi non è solo un “uomo biologico”, in quanto la perfezione della nostra natura è legata anche alla nostra cultura. 

Considerazioni, queste, che valgono quando si prende in esame il benessere di pazienti – tema al quale sono stati dedicati recentemente anche il corso universitario all’USI «Cultura e Salute» e l’omonimo Forum Svizzero, organizzati dalla IBSA Foundation e dalla Città di Lugano - ma anche il benessere dei curanti. 

Parlando alla serata organizzata dalla Fondazione Sasso Corbaro, la professoressa Ferrara ha dimostrato – a partire da evidenze tra gli studenti, “monitorati” tramite questionari individuali, e tramite colloqui con docenti medici – i benefici che seguono all’inclusione di discipline artistiche in un percorso formativo medico. Tutto questo era nell’aria già nel 1992, quando per la prima volta l’Organizzazione Mondiale della Sanità sottolineava l’importanza, nell’ambito delle scuole e della formazione, di allenare le cosiddette “Life Skills”, ovvero quelle competenze che “portano a comportamenti positivi e di adattamento, in grado di rendere l’individuo capace di far fronte efficacemente alle richieste e alle sfide della vita di tutti i giorni.”  Per un medico questo significa, ad esempio, riuscire a svolgere i compiti della professione facendo fronte con maggiore efficacia allo stress, senza fermarsi alla prima diagnosi. 

Questo invito – racconta a Ticino Scienza la docente – è stato accolto negli Stati Uniti, dove da vari anni diverse università mediche (Yale e Harvard, per citarne due di assoluto prestigio) hanno iniziato a proporre agli studenti visite guidate ai musei d’arte. Ma anche la Cornell University di New York porta ormai da tempo alla Frick Collection (galleria di ritratti) gli studenti di medicina: l’obiettivo è  «discutere e analizzare i volti tratteggiati dagli artisti per imparare a comprendere le emozioni e sentimenti “degli altri” ». 

Per fare esperienze simili in Europa una delle poche possibilità (opzionali) offerte agli studenti di medicina è studiare all’Università La Sapienza di Roma nell’ambito del corso di laurea in Medicina e Chirurgia “C”. Hanno questa opportunità anche gli studenti che frequentano il corso di laurea magistrale in Scienze infermieristiche e ostetriche “A”. Tali attività didattiche sono parte di un progetto pilota che dal 2014 propone ai ragazzi, sotto la guida della professoressa Ferrara, “di dibattere di arte” – anche se in realtà il tutto è un po’ più complesso, come spiega la docente: «Per Medicina si parte con gli iscritti al terzo anno. Durante il mio corso presento una serie di dipinti e altre opere d’arte, e chiedo a ogni studente di formulare ipotesi sul contenuto di quanto vede e di portare evidenze visive a sostegno. Segue poi una discussione di gruppo e solo alla fine svelo cosa l’immagine rappresenti, applicando il metodo delle Visual Thinking Strategies».
La complessità e pertinenza al campo medico delle discussioni cresce con il quarto e quinto anno. Al quarto anno viene introdotto l’ascolto attivo: a uno dei partecipanti viene assegnata un’immagine, in alcuni casi anche con elementi di malattia come, ad esempio, l’Autoritratto di Dick Ket, che contiene segni di tetralogia di Fallot, una cardiopatia congenita complessa. Lo studente deve poi descrivere quanto vede agli altri, i quali disegnano quello che sentono dalla descrizione. Sempre al quarto anno si propongono esercizi di icono-diagnostica: in gruppo, cioè, i ragazzi sono invitati a trovare patologie in opere d’arte. «Si pensi - dice la professoressa Ferrara - all’Amorino dormiente di Caravaggio, dipinto che rappresenta un bambino il cui rachitismo è stato identificato da alcuni studenti osservando l’opera attraverso il processo delle Visual Thinking Strategies. Le VTS, lo ricordiamo, sono un metodo di insegnamento basato sull’indagine che migliora la capacità dello studente di descrivere, analizzare e interpretare immagini e informazioni attraverso l’osservazione e la discussione dell’arte visiva».

Si arriva poi, nel quinto anno di studi, ad assegnare ai ragazzi un’immagine legata a una disciplina medica («abbiamo fatto ricorso spesso a problemi dermatologici – precisa Ferrara – in stretta collaborazione con un collega dermatologo, appunto») e gli studenti arrivano a una diagnosi ripercorrendo lo stesso procedimento applicato e esercitato sulle opere d’arte negli anni precedenti.

Insomma, non stiamo parlando di arte-terapia, di medicina narrativa (che utilizza la lettura e la narrazione) e nemmeno dell’inclusione della storia della medicina o di corsi di bioetica nel curriculum di studi medici (cosa che per altro già avviene in diverse università in Europa). Si tratta, invece, di una rivoluzione più radicale, complementare a quella avviata dal Positivismo ottocentesco. «Se il Positivismo - continua Ferrara - ha portato in auge la definizione e applicazione di medicina come scienza esatta che misura e riscopre parametri definiti, definibili e oggettivi, oggi si è ormai compresa l’importanza di condurre un’analisi contestuale e psicosociale del paziente, e di riavvicinare il medico al soggetto in cura (che proprio l’utilizzo di indagini strumentali senza un’analisi semeiotica accurata aveva allontanato)». 

La svolta, va ricordato, è arrivata tra gli anni Sessanta e Settanta da studi iniziati negli Stati Uniti, quando ci si è resi conto delle problematicità insite in un modello medico che pone in secondo piano la semiotica medica, ovvero l’indagine e l’osservazione dei sintomi e segni (termine usato per indicare quegli indicatori significativi di malattia che un medico può utilizzare per fare una diagnosi definitiva). La medicina ha iniziato a doversi confrontare, ad esempio, con diversi “falsi positivi”, dovuti a errori di misurazione che rilevavano la presenza di malattia quando in realtà non c’era; mentre le istituzioni sanitarie hanno preso atto del lievitare dei costi della sanità proporzionali al numero crescente degli esami strumentali diagnostici richiesti. Inoltre, a partire dal primo decennio degli anni Duemila e grazie al lavoro dell’OMS, si è arrivati a riformulare la definizione di salute, che non è solo "assenza della malattia, ma dipende tanto dall’aspetto biologico quanto da quello psicologico e sociale”, con “la capacità di adattarsi e di autogestirsi di fronte alla sfide sociali, fisiche ed emotive” che pone nuove basi per una riflessione sul ruolo della cura e quindi dei professionisti di questo ambito”.
E per un ritorno alla diagnostica medica che non si basi esclusivamente sul ricorso a esami strumentali, ma si fondi sull’osservazione che il medico fa dei sintomi e riconnetta il curante al paziente, l’arte è un’alleata importante: «Abbiamo visto – conclude Ferrara – che il linguaggio artistico, non verbale nello specifico, sviluppa competenze come capacità di osservazione di gesti, sguardi e posizioni, favorisce l’ascolto attivo, empatia, tolleranza dell’ambiguità. Potenzia la capacità di “prendersi tempo”, poiché di fronte a un’opera d’arte il ragionamento sul significato di quanto si ha davanti non è immediato, ma richiede pause e riflessioni, promuovendo il processo di problem solving (abilità nel risolvere i problemi) e capacità di pensiero critico per prendere decisioni. Infine, l’arte mette il personale di cura nella condizione di trovarsi in un’area di comfort, limitandone lo stress nei contesti di lavoro».
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(Nella foto in alto, la professoressa Vincenza Ferrara durante la visita in un museo con gli studenti di medicina)