Arte che cura, lezione 3
Enzo Grossi: «In Belgio e GB i medici prescrivono le visite ai musei»
di Valeria Camia
Come cullati dal rumore cadenzato dei lenti passi di chi si trova con noi nelle sale dove sono esposte le opere d’arte; accompagnati dal ticchettio che lasciano le scarpe sul pavimento; rassicurati dal bisbigliare di curiosi, famiglie o scolaresche in gita, ci stacchiamo dal mondo esterno per immergerci nella creatività o nella storia. Questo sentimento rigenerante di cui facciamo esperienza, anche involontaria, visitando un museo, non è una percezione soggettiva ma avviene davvero “dentro di noi”. Ce lo dimostrano diverse evidenze scientifiche, che verranno presentate da Enzo Grossi, medico chirurgo, docente e ricercatore, il 28 ottobre all’Università della Svizzera italiana (ore 18, presso l’Aula Polivalente del Campus Est di Lugano-Viganello, in via La Santa 1). «I musei non sono solo luoghi di cultura, ma veri e propri strumenti di benessere, capaci di influire positivamente sulla salute fisica e mentale delle persone» - spiega Grossi che parlerà nell’ambito (terza lezione) del corso “Arte che cura”, organizzato dalla Facoltà di Scienze biomediche dell’USI, in collaborazione con la Divisione cultura della Città di Lugano e con la IBSA Foundation per la ricerca scientifica.
Dicevamo, i musei... «Questi luoghi - precisa Grossi - contribuiscono alla salute e al benessere in vari modi: promuovono esperienze sociali positive, offrono opportunità di apprendimento e crescita, presentano una combinazione di caratteristiche che facilitano il recupero della fatica mentale, favoriscono il rilassamento e riducono l’ansia. Inoltre, possono migliorare l’autostima e il senso di identità, fornendo supporto anche a persone affette da malattie croniche, ai loro "caregiver" e al personale sanitario».
L’interesse per i musei e i loro benefici per la nostra salute, ricorda Grossi, si era già palesato tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90, quando i professori Stephen e Rachel Kaplan avevano elaborato la teoria nota come "attention restoration theory": «Questa teoria - dice Grossi - sottolinea i meccanismi peculiari degli ambienti naturali, quali la capacità di affascinare, il senso di ampiezza e la sensazione di evasione dalla routine quotidiana. La teoria evidenzia inoltre l’importanza della compatibilità tra l’ambiente e le attività che l’individuo desidera svolgere, al fine di favorire un’esperienza ristoratrice completa. Ecco, il primo studio che i Kaplan eseguirono al di fuori degli ambienti naturali fu condotto proprio in un museo d’arte».
In uno studio pubblicato sulla rivista Curator nel 2010, i ricercatori sono partiti proprio dalla teoria dei Kaplan e hanno esplorato in modo scientifico e quantitativo come le visite museali offrano esperienze "restorative", per usare un anglicismo, ovvero esperienze preziose per promuovere la salute e il benessere. Circa 600 persone (tra turisti e residenti) sono stati invitati a visitare quattro ambienti (un giardino botanico, un acquario, un museo d’arte e una galleria d’arte). Poi è stato chiesto loro di compilare un questionario che riprendeva le dimensioni esplicitate dalla attention restoration theory. Come ricorda Grossi, le evidenze dello studio mostrano che i musei ci fanno stare bene almeno quanto gli ambienti naturali.
Un altro lavoro scientifico rilevante, strutturato, con un numero adeguato di partecipanti, ha coinvolto persone affette da demenza. È conosciuto come Artemis, l’acronimo per Art Encounter Museum Intervention Study, e i risultati di questo studio indicano un significativo miglioramento del benessere emozionale nei partecipanti che hanno preso parte a visite guidate e laboratori artistici nei musei, a differenza di un gruppo di controllo.
Altri studi sono stati attivati, negli ultimi quindici anni, a sostegno di come la visita a un museo d’arte faccia diminuire l’ansia e sia benefica per coloro che frequentano abitualmente l’ambito museale. «A questo proposito - riprende Grossi - citerei anche una ricerca pubblicata nel 2018, che ha dimostrato proprio l’impatto di programmi museali specificamente progettati per ridurre la solitudine e l’isolamento sociale in adulti e anziani vulnerabili». Nell’ambito di questo studio sono stati coinvolti 6 musei della Gran Bretagna, tre nel centro di Londra e tre nel Kent, i quali hanno fornito programmi di sessioni museali per alcuni mesi a gruppi di persone anziane: esattamente 12 programmi di 10 sessioni settimanali (ciascuna di due ore) nell’arco di due anni. È stata quindi esaminata l’entità del cambiamento nel tempo di sei emozioni autovalutate dai partecipanti, ed è emerso che «le visite ai musei possono essere una terapia efficace per combattere la solitudine e l’isolamento sociale, confermando così che in molti casi le attività sociali e culturali sono un’alternativa valida ai trattamenti farmacologici. I partecipanti allo studio hanno infatti dichiarato di aver vissuto un senso di privilegio, apprezzando l’opportunità di interagire con i curatori, visitare parti del museo chiuse al pubblico e di conoscere nuove persone in un contesto diverso» - riassume Grossi.
Gli studi scientifici sui musei quali spazi di rigenerazione per il benessere fisico e mentale di chi li visita sono oggi via via “accolti” da diversi curatori di musei e, in diversi Paesi, i luoghi d’arte stanno ampliando la propria "mission", da centri per l’apprendimento e l’educazione a centri per il benessere individuale e sociale, come fece, primo tra tutti nel 2006 il MoMA di New York, che aprì le proprie sale a persone affette da demenza. «Oggi - spiega Grossi - possiamo parlare di vera è propria art prescription (concretamente possiamo pensare a visite al museo prescritte dal medico curante). Si tratta di una pratica abituale in Paesi come la Gran Bretagna o il Belgio. Nel caso della Gran Bretagna, in particolare, l’art prescription fa parte di un’esperienza trentennale che implica anche la presenza di una figura professionale specifica (l’arte terapeuta), che è una specie di mediatore tra il medico curante e i centri del terzo settore che agiscono come centri culturali, gestendo casi spesso legati a situazioni di solitudine o stress».