cultura e salute

Arte che cura, lezione 3
Enzo Grossi: «In Belgio e GB i medici prescrivono le visite ai musei»

Lunedì 28 ottobre 2024 ca. 5 min. di lettura
Enzo Grossi
Enzo Grossi

di Valeria Camia

Come cullati dal rumore cadenzato dei lenti passi di chi si trova con noi nelle sale dove sono esposte le opere d’arte; accompagnati dal ticchettio che lasciano le scarpe sul pavimento; rassicurati dal bisbigliare di curiosi, famiglie o scolaresche in gita, ci stacchiamo dal mondo esterno per immergerci nella creatività o nella storia. Questo sentimento rigenerante di cui facciamo esperienza, anche involontaria, visitando un museo, non è una percezione soggettiva ma avviene davvero “dentro di noi”. Ce lo dimostrano diverse evidenze scientifiche, che verranno presentate da Enzo Grossi, medico chirurgo, docente e ricercatore, il 28 ottobre all’Università della Svizzera italiana (ore 18, presso l’Aula Polivalente del Campus Est di Lugano-Viganello, in via La Santa 1). «I musei non sono solo luoghi di cultura, ma veri e propri strumenti di benessere, capaci di influire positivamente sulla salute fisica e mentale delle persone» - spiega Grossi che parlerà nell’ambito (terza lezione) del corso “Arte che cura”, organizzato dalla Facoltà di Scienze biomediche dell’USI, in collaborazione con la Divisione cultura della Città di Lugano e con la IBSA Foundation per la ricerca scientifica.

Dicevamo, i musei... «Questi luoghi - precisa Grossi - contribuiscono alla salute e al benessere in vari modi: promuovono esperienze sociali positive, offrono opportunità di apprendimento e crescita, presentano una combinazione di caratteristiche che facilitano il recupero della fatica mentale, favoriscono il rilassamento e riducono l’ansia. Inoltre, possono migliorare l’autostima e il senso di identità, fornendo supporto anche a persone affette da malattie croniche, ai loro "caregiver" e al personale sanitario».  

L’interesse per i musei e i loro benefici per la nostra salute, ricorda Grossi, si era già palesato tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90, quando i professori Stephen e Rachel Kaplan avevano elaborato la teoria nota come "attention restoration theory": «Questa teoria - dice Grossi - sottolinea i meccanismi peculiari degli ambienti naturali, quali la capacità di affascinare, il senso di ampiezza e la sensazione di evasione dalla routine quotidiana. La teoria evidenzia inoltre l’importanza della compatibilità tra l’ambiente e le attività che l’individuo desidera svolgere, al fine di favorire un’esperienza ristoratrice completa. Ecco, il primo studio che i Kaplan eseguirono al di fuori degli ambienti naturali fu condotto proprio in un museo d’arte».

In uno studio pubblicato sulla rivista Curator nel 2010, i ricercatori sono partiti proprio dalla teoria dei Kaplan e hanno esplorato in modo scientifico e quantitativo come le visite museali offrano esperienze "restorative", per usare un anglicismo, ovvero esperienze preziose per promuovere la salute e il benessere. Circa 600 persone (tra turisti e residenti) sono stati invitati a visitare quattro ambienti (un giardino botanico, un acquario, un museo d’arte e una galleria d’arte). Poi è stato chiesto loro di compilare un questionario che riprendeva le dimensioni esplicitate dalla attention restoration theory. Come ricorda Grossi, le evidenze dello studio mostrano che i musei ci fanno stare bene almeno quanto gli ambienti naturali. 

Un altro lavoro scientifico rilevante, strutturato, con un numero adeguato di partecipanti, ha coinvolto persone affette da demenza. È conosciuto come Artemis, l’acronimo per Art Encounter Museum Intervention Study, e i risultati di questo studio indicano un significativo miglioramento del benessere emozionale nei partecipanti che hanno preso parte a visite guidate e laboratori artistici nei musei, a differenza di un gruppo di controllo.

Altri studi sono stati attivati, negli ultimi quindici anni, a sostegno di come la visita a un museo d’arte faccia diminuire l’ansia e sia benefica per coloro che frequentano abitualmente l’ambito museale. «A questo proposito - riprende Grossi - citerei anche una ricerca pubblicata nel 2018, che ha dimostrato proprio l’impatto di programmi museali specificamente progettati per ridurre la solitudine e l’isolamento sociale in adulti e anziani vulnerabili». Nell’ambito di questo studio sono stati coinvolti 6 musei della Gran Bretagna, tre nel centro di Londra e tre nel Kent, i quali hanno fornito programmi di sessioni museali per alcuni mesi a gruppi di persone anziane: esattamente 12 programmi di 10 sessioni settimanali (ciascuna di due ore) nell’arco di due anni. È stata quindi esaminata l’entità del cambiamento nel tempo di sei emozioni autovalutate dai partecipanti, ed è emerso che «le visite ai musei possono essere una terapia efficace per combattere la solitudine e l’isolamento sociale, confermando così che in molti casi le attività sociali e culturali sono un’alternativa valida ai trattamenti farmacologici. I partecipanti allo studio hanno infatti dichiarato di aver vissuto un senso di privilegio, apprezzando l’opportunità di interagire con i curatori, visitare parti del museo chiuse al pubblico e di conoscere nuove persone in un contesto diverso» - riassume Grossi. 

Gli studi scientifici sui musei quali spazi di rigenerazione per il benessere fisico e mentale di chi li visita sono oggi via via “accolti” da diversi curatori di musei e, in diversi Paesi, i luoghi d’arte stanno ampliando la propria "mission", da centri per l’apprendimento e l’educazione a centri per il benessere individuale e sociale, come fece, primo tra tutti nel 2006 il MoMA di New York, che aprì le proprie sale a persone affette da demenza. «Oggi - spiega Grossi - possiamo parlare di vera è propria art prescription (concretamente possiamo pensare a visite al museo prescritte dal medico curante). Si tratta di una pratica abituale in Paesi come la Gran Bretagna o il Belgio. Nel caso della Gran Bretagna, in particolare, l’art prescription fa parte di un’esperienza trentennale che implica anche la presenza di una figura professionale specifica (l’arte terapeuta), che è una specie di mediatore tra il medico curante e i centri del terzo settore che agiscono come centri culturali, gestendo casi spesso legati a situazioni di solitudine o stress».