Arte che cura, lezione 1
Vincenza Ferrara: "Visual
thinking" per medici e pazienti
di Valeria Camia
Un approccio innovativo all’educazione medica che utilizza il potere dell’arte per migliorare il pensiero critico, l’empatia e le capacità di problem-solving (soluzione dei problemi) tra i professionisti della salute (ma che è anche uno strumento utile per il benessere, la promozione della salute, l’inclusione sociale e la riabilitazione cognitiva): stiamo parlando di Visual Thinking Strategies (VTS, Strategie di Pensiero Visivo in italiano), una tecnica radicata nella psicologia e nell’educazione artistica, «per migliorare la cura del paziente a partire dall’affinamento delle capacità di osservazione e ascolto attivo del curante - spiega Vincenza Ferrara, ex-direttrice del Laboratorio Arte e Medical Humanities dell’Università La Sapienza di Roma. - Questo è centrale affinché il paziente venga compreso appieno, sia nel momento della diagnosi, sia durante il trattamento e quando si tratta di monitorare l’aderenza a una terapia». La professoressa Ferrara sarà a Lugano il 7 ottobre (alle ore 18 nell’Aula Polivalente del Campus Est di via La Santa 1), per inaugurare il corso "Arte che cura" organizzato dall’Università della Svizzera italiana con la Divisione cultura della Città di Lugano e la IBSA Foundation per la ricerca scientifica.
Durante la sua lezione (la prima di sette, che si snoderanno fino al 2 dicembre e verranno affidate anche ad altri esperti), Vincenza Ferrara porterà evidenze sull’importanza di includere, nella formazione degli studenti di medicina (ma anche in generale nella professione di medici, infermieri, professionisti della salute e care-giver) non solo la parte “più tecnica”, ma anche discipline umanistiche che possano essere utili per migliorare l’empatia. «Stiamo insegnando a queste figure professionali non solo come diagnosticare malattie, ma anche come mettere la persona al centro - precisa la docente. - A volte l’adozione di protocolli, per quanto fondamentali, può portare a una visione ristretta. È importante non limitarsi a seguire le linee guida senza considerare che ogni paziente potrebbe presentare una situazione unica».
Lei ha avviato i Suoi corsi già nel 2014, presso Università La Sapienza. A distanza di dieci anni, vediamo confermata, dai dati scientifici raccolti, l’importanza di riavvicinare il medico alle persone in cura tramite le VTS?
«Nei miei corsi a La Sapienza, concretamente, gli studenti di medicina sono messi di fronte a opere d’arte e incoraggiati a sviluppare abilità di osservazione acute, pensare criticamente e comunicare in modo più efficace. Oggi sappiamo che i partecipanti impegnati in attività di VTS sperimentano una riduzione dello stress, con migliori risultati per i pazienti. L’esempio dell’università romana è stato portato anche in altre sedi universitarie. Ad esempio con l’Università dell’Aquila ho avviato un progetto nel 2020 e sono stati introdotti alcuni moduli di formazione utilizzando le arti visive, e in particolare il metodo delle Visual Thinking Strategies all’interno del corso di laurea magistrale in Medicina e Chirurgia, in cui sono stati inseriti anche studenti del corso Beni Culturali. Ho scritto di questo (con colleghi del progetto) in un articolo scientifico pubblicato nella rivista scientifica “Tutor” nel dicembre del 2023. Con docenti di Medicina e di Scienze infermieristiche della Sapienza abbiamo realizzato delle ricerche collegate al format del corso proposto, che prevedeva quattro incontri di laboratorio di 90 minuti ciascuno, preceduti da alcune lezioni su Arte e Medicina, con la somministrazione di test pre e post, utilizzando una griglia per valutare l’impatto della metodologia sullo sviluppo delle competenze. Dai risultati emerge che tutti gli studenti coinvolti hanno aumentato il loro punteggio da pre a post test, dimostrando il miglioramento delle capacità di osservazione, risoluzione dei problemi, pensiero critico, espressione linguistica. Lo stesso test è stato somministrato a un gruppo di controllo con studenti che non hanno partecipato a attività di VTS nello stesso periodo, ma per questo gruppo i risultati relativi alle capacità sopra citate non sono stati altrettanto positivi».
Nei suoi corsi, attraverso l’uso dell’iconodiagnostica (ovvero l’osservazione e la discussione di immagini artistiche e opere d’arte per identificare una patologia rappresentata dall’artista), gli studenti affinano la propria capacità di diagnosi. Ma al di là dei corsi di formazione universitaria, il metodo della VTS trova spazio anche in “altri” contesti sanitari?
«Sì, perché uno degli aspetti più interessanti del metodo della VTS, direi, è la sua adattabilità che ne ha proprio permesso l’applicazione con successo in diversi reparti e strutture di assistenza. Per esempio, ho proposto corsi di aggiornamento all’interno di musei per operatori delle ASL italiane (le Aziende sanitarie locali), come a Trapani. Più recentemente ho tenuto corsi di Visual Thinking Strategies per medici e psicologi di un hospice di Trieste, nell’ambito delle cure palliative, e a breve sarò alla ASL a Biella. Cresce la ricerca anche a livello internazionale, dagli Stati Uniti all’Irlanda, passando per la Corea e il Brasile, la Turchia e Dubai, con varie collaborazioni e momenti di confronto tra i ricercatori. Giusto per il prossimo 20 e 21 novembre sto organizzando, con l’Università Campus Bio-Medico di Roma, una Conferenza internazionale dedicata all’utilizzo dell’arte nell’educazione medica, con interventi di diversi esperti internazionali (ci sarà anche il professor Enzo Grossi) e workshop tematici legati all’utilizzo dell’arte per promuovere il benessere del personale sanitario e lo sviluppo di competenze specifiche per migliorare la qualità della vita e delle cure».
Diversi studi dimostrano l’efficacia delle VTS per i curanti. Invece, per quanto riguarda i pazienti, ci sono applicazioni e dati?
«Certo. Ci sono evidenze che indicano l’utilità delle Visual Thinking Strategies per chi soffre di malattie croniche. Ad esempio, abbiamo sperimentato con successo l’applicazione delle VTS e altre attività per l’ascolto attivo e la promozione dell’empatia con pazienti affette da Lupus eritematoso. Si è trattato di un progetto di cinque incontri online, della durata di un’ora e mezza ciascuno, per le pazienti. Durante queste sessioni, sono stati somministrati questionari pre e post attività per valutare i risultati, tra cui un questionario sull’intelligenza emotiva, correlata alla depressione e alle relazioni. Il confronto dei risultati tra le pazienti che hanno partecipato alle attività e quelle che non hanno partecipato ha rivelato miglioramenti significativi nelle competenze, nella depressione e nelle relazioni per le pazienti coinvolte».
Dunque, possiamo dire che, con la crescente domanda di assistenza sanitaria più attenta ai bisogni del paziente, le VTS offrono un nuovo tipo di approccio?
«Esatto. E aggiungerei che le VTS sono sempre importanti in ogni situazione dove c’è una relazione di cura o accudimento - come può essere anche quella degli insegnanti in contesti scolastici - e là dove non siamo più abituati a prenderci tempo per osservare, perché appunto la tecnologia che ci circonda, quella che noi utilizziamo, ci stimola a usare poco tempo».
Ma come si può conciliare l’approccio diagnostico basato sull’osservazione e la relazione medico-paziente con la pressione crescente verso l’uso della tecnologia medica e degli esami strumentali per una diagnosi precisa e rapida?
«Da diverso tempo rifletto sull’impatto che la tecnologia può avere sulle relazioni umane e sulla società in generale. Nel settore sanitario, ho verificato come la tecnologia possa essere una risorsa inestimabile, ad esempio fornendo risposte rapide e ottimizzando i tempi. Tuttavia, essa non può comprendere la complessità di un essere umano, né tanto meno può sostituirsi al medico nella decisione finale. Un paziente non è un insieme di dati, ma una persona con una storia non solo biologica ma anche legata al suo vissuto sociale, al suo sviluppo psicologico, alle emozioni, alla cultura, elementi che possono influenzare non solo il suo stato di salute e benessere, ma anche l’impatto delle cure. La tecnologia e l’Intelligenza Artificiale di cui tanto si parla oggi, quindi, non devono fare paura se usate come uno strumento ausiliario, non come un sostituto del medico. Sono convinta che il tempo risparmiato grazie all’automazione debba e possa essere reinvestito nella relazione con il paziente, ascoltando le sue esigenze e fornendogli un supporto personalizzato. Ed è qui che trovano spazio, e troveranno spazio anche in futuro, le Visual Thinking Strategies nell’ambito dell’approccio delle Medical Humanities, che può promuovere buoni risultati nel settore della formazione nell’area sanitaria, come confermano numerosi studi scientifici».