MEDICAL HUMANITIES

«Solo la Medicina che si riscopre "umanistica" sarà davvero capace
di prendersi cura di noi»

Domenica 5 dicembre 2021 circa 9 minuti di lettura In deutscher Sprache

Parla lo psichiatra Graziano Martignoni, vicepresidente della Fondazione Sasso Corbaro. Più attenzione verso i pazienti, ma anche verso i curanti. Fra le iniziative, una rivista realizzata con l’Ente ospedaliero
di Cesare Alfieri

La differenza sta tutta in una lettera dell’alfabeto, “a” al posto di “u”, in due parole inglesi: care (la premura verso l’interezza della persona, senza limitarsi alla sola malattia) al posto di cure (la terapia contro la patologia). I vent’anni di attività della Fondazione Sasso Corbaro a Bellinzona, interamente dedicati alle medical humanities, cioè all’intreccio fra le discipline mediche e quelle umanistiche (etica, psicologia e molte altre), si possono riassumere, sintetizzando al massimo, nell’alternanza di quelle due vocali. Certo, sembra ovvio che i medici, gli infermieri, gli ospedali debbano preoccuparsi del malato nella sua completezza (affrontando quell’ampia serie di elementi che possono influire sullo “star male”), e non solo, in modo meccanico, concentrando l’attenzione su una singola patologia, senza tenere conto della parte più umana, appunto. Eppure spesso le cose vanno proprio così, e il malato entra in una sorta di catena di montaggio della salute, che cerca di curare i sintomi e di eradicare un’infezione, o una cellula malata, ma non si preoccupa nello stesso tempo di tutto quello che c’è intorno (e che condiziona in modo pesante, a volte, le terapie e la guarigione stessa). D’altronde in quasi tutte le università del mondo si dà poco spazio a questi temi, e gli aspiranti medici non vengono selezionati tenendo conto anche delle loro qualità empatiche, della capacità e del desiderio di assistere il malato nella sua completezza. Le medical humanities sono nate per invertire la rotta.

Dal 2000 la Fondazione Sasso Corbaro promuove la formazione, la ricerca e la consulenza in questo settore, e qualche settimana fa, il 21 ottobre, ha organizzato il suo Convegno annuale, nel Convento delle Agostiniane a Monte Carasso. Il vicepresidente, e cofondatore, è Graziano Martignoni, psichiatra e psicoterapeuta di grande prestigio, in Svizzera e all’estero, e professore alla SUPSI. Ticino Scienza gli ha chiesto un incontro, per approfondire questi temi.

Martignoni ci accoglie nell’intimità libresca di uno studio di pagine lette e fatte proprie. Le pareti sono tappezzate di trattati di psicologia e manuali psichiatrici, ma non solo. La sezione filosofica è altrettanto ricca, così come ben rappresentata è la grande letteratura, dai tragici greci alle elegie di Rilke. Dimmi cosa leggi e ti dirò chi sei: vale anche per Graziano Martignoni, che della coesione fra medicina e cultura ha fatto il fulcro di una passione da vivere e condividere.

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Professore, ci racconti gli albori della Fondazione Sasso Corbaro. Perché si chiama così?

«Come spesso accade - risponde Martignoni - la Fondazione nasce da un incontro e da un’amicizia. Occorre riavvolgere la storia di 23 anni e ritornare a un Ticino molto diverso da quello di oggi. Un Ticino quasi rurale, in cerca di stimoli che le neonate USI e SUPSI si apprestavano a soddisfare. Io lavoravo al manicomio, impegnato principalmente a fronteggiare il problema dell’eroina. Un giorno invitai Roberto Malacrida, medico di cure intense e amico fin dai tempi del servizio militare, a un seminario sul rapporto fra medicina e cultura. Ho sempre creduto che la cultura facesse bene alla cura e scoprii che Roberto la pensava come me, che come me era persuaso si dovesse lavorare in gruppo a questa convinzione, poiché il pensiero di uno solo è destinato a rimanere un povero pensiero. Così nacque il primo seme della Fondazione Sasso Corbaro, che deve il nome al castello alla cui ombra sorge l’abitazione di Roberto. Il tutto nacque poi ufficialmente nel 2000».

Il legame fra cultura e medicina di cui parla è alla base delle medical humanities?

«Sì, ma non solo. Le medical humanities nascono negli anni ’60 in America per riportare equilibrio fra la cosiddetta medicina delle evidenze (quella tecnico-scientifica) e la medicina della narrazione (che si riferisce a vissuti relazionali e psicologici) e arginare la tendenza della prima a prendere il sopravvento. Il dolore del malato esige un’attenzione clinica non solo tecnica, occorre l’occhio dell’etica. Faccio un esempio: un corpo sano è la prima e più importante premessa della nostra libertà d’azione e il malato soffre per la libertà sottratta. Un curante umanista saprà scorgere questa fragilità tutta umana e reagirà, saprà perciò curare meglio. La Cura, e non la terapia, deve essere lo scopo. Così come lo scopo della cultura che promuoviamo alla Sasso Corbaro non è l’animazione di un erudito salotto: è portare questa cultura al letto del malato perché tragga da questo incontro aiuto concreto».

Con quali attività la Sasso Corbaro persegue il suo fine?

«Innanzitutto attraverso la formazione umanistica del personale curante di ospedali, case anziani, centri per disabilità (non solo medici, ma chiunque si prenda Cura, si faccia Cura, abbia Cura). La nostra accademia per le medical humanities offre percorsi annuali che rilasciano una certificazione a fronte di una partecipazione dell’80% e alla consegna di un lavoro di riflessione. Ogni anno il tema portante cambia: in questo 2021 ci siamo concentrati sulla cura al tempo del contagio. L’anno prossimo approfondiremo il tema già discusso durante il convegno dello scorso ottobre e incentrato, perdonate il gioco di parole, sul senso dei sensi. Nell’affrontare la sofferenza del paziente, sono molti i modi di vedere e di udire, diverse le modalità del toccare, molteplici i ruoli di gusto e olfatto. Attraverso la sensorialità il curante può conoscere più intimamente il malato affiancando al puro logos la cura dei sensi e con i sensi.
A questo si aggiunge la formazione continua con i Certificates of Advanced Studies (CAS): quello attualmente in corso, “La comunicazione come strumento di cura”, è promosso assieme all’Ente ospedaliero cantonale, alle facoltà USI di Scienze biomediche e di Comunicazione, cultura e società.
Infine, l’attenzione al territorio, che è uno dei nostri pilastri, ci motiva a organizzare convegni e cicli di conferenze rivolti ai cittadini».

Pensate che la neonata facoltà di medicina dell’USI possa essere una buona occasione per inserire un corso di medical humanities nel percorso formativo dei futuri medici?

«Seppure riconoscendo e apprezzando l’apertura alle nuove metodologie di formazione della facoltà di medicina USI, vi è ancora una rigidità tutta universitaria verso le entità non accademiche. Questo non ci ha impedito di collaborare fruttuosamente con l’Università di Ginevra, con l’USI, con la SUPSI, con la Bicocca di Milano. Rimaniamo però un’entità para-accademica, anche perché la medicina stessa, forte della sua tradizione tecnica, ripiega spesso verso posizioni conservatrici nei confronti delle medical humanities. Attenzione però: anche noi siamo gelosi della nostra identità. Alleanze sì, ben volentieri, ma senza sacrificare il nostro stile». 

Però svolgete anche attività di ricerca e recentemente vi siete affiliati all’USI, giusto?

«Esatto. L’affiliazione all’USI è ancora in una fase nascente, ma già i CAS ne sono un primo prodotto. Inoltre, dalle collaborazioni accademiche nascono spesso articoli di ricerca peer reviewed (cioè verificati da esperti indipendenti, ndr). In queste occasioni mettiamo l’umanesimo fra parentesi e, avanzando con metodo rigorosamente scientifico, recuperiamo il nostro esprit de géométrie, per dirla con Pascal». 

Capita che il personale curante senta il bisogno di rivolgersi a voi per trarre giovamento dalle medical humanities?

«Assolutamente sì. Noi rispondiamo con attività di supervisione. È una tecnica di consulenza che offre ai componenti di una squadra curante la possibilità di parlare delle loro stesse difficoltà. Prendersi cura del curante è di importanza primaria. “Medice, cura te ipsum” (medico, cura te stesso), per reinterpretare una citazione importante». 

Mi sorge un dubbio: lei pensa che le medical humanities si possano davvero insegnare?

«Credo non sia esagerato parlare di Vocazione del curante all’umanesimo clinico, all’empatia etica. La interpreto etimologicamente come chiamata, triplice per giunta: dall’interiorità, dal mondo esterno, verso l’utopia. Nostro compito non è insegnare, ma rendere maieuticamente consapevole questa chiamata in chi ce l’ha già. La mia è una posizione forte: anche all’interno della Fondazione ci sono visioni più “laiche”».

Se volessimo approfondire le medical humanitites, come potremmo fare?

«Consiglio di contattare il nostro Centro di Documentazione: più di 5000 volumi, 1000 film, 10000 articoli divulgativi. Per addetti ai lavori, studenti, scuole, normali cittadini. Un archivio inserito nel sistema bibliotecario USI e SUPSI, attraverso cui noi volentieri guidiamo e consigliamo se richiesto. Qui si possono trovare anche i 48 numeri finora usciti della nostra rivista per le Medical Humanities».

Ci può dire di più sulla rivista?

«Volentieri: la rivista è edita dall’Ente Ospedaliero Cantonale assieme alla sua Commissione di etica clinica (COMEC), esce quadrimestralmente e viene distribuita in tutte le librerie dalle Edizioni Casagrande di Bellinzona. Vi raccogliamo percorsi tematici, casi clinici, interviste e repliche dei lettori. Ci richiede uno sforzo notevole, anche perché il comitato operativo mira ambiziosamente al perfezionismo: guai ai refusi!»

Formazione, ricerca, biblioteca, rivista, servizi ai curanti: un’impressionante lista di attività. Ci vorranno molte persone per portarle avanti. E anche fondi

«In realtà siamo solo una quindicina di persone a tempo parzialissimo, ma la passione che anima la nostra comunità è enorme. Per i fondi, dobbiamo in larga parte ringraziare il Cantone, ma anche donazioni di privati».

Mi permetta un’osservazione cinica: in una medicina efficientista, razionalizzatrice di tempi e costi, riesce il medico volenteroso a dedicare il tempo necessario a una cura etica dei malati?

«La medicina evolve, la digitalizzazione è stata un aiuto innegabile, ma attenzione a non esagerare: oggi il medico passa più tempo davanti ai monitor che di fronte al paziente, spesso a rendicontare le sue attività in dettagliatissimi moduli che costificano ogni prestazione. Non è un problema di facile soluzione, ma mi pare che un approccio economicista iperdigitalizzato non sia il migliore né per il curante né per il curato».

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Insomma, come dicevamo all’inizio, la Fondazione Sasso Corbaro ha interiorizzato sempre più quella differenza semantica fra cure e care (una terminologia sottolineata, in particolare, dal filosofo Massimiliano Pappalardo nel libro “Essere antifragili o del coraggio”). Ma anche Franco Battiato, in fondo, aveva cantato le stesse cose, con toni più poetici:
E guarirai da tutte le malattie
Perché sei un essere speciale
Ed io, avrò Cura di te