CONTAMINAZIONI

Scienza e teatro: legami antichi
e metodi simili, alla ricerca di verità (e affinità) nascoste

Venerdì 22 gennaio 2021 circa 6 minuti di lettura In deutscher Sprache
Una scena di "Macbeth, le cose nascoste”. Copyright: LAC Foto Studio Pagi
Una scena di "Macbeth, le cose nascoste”. Copyright: LAC Foto Studio Pagi

Intervista a Carmelo Rifici, ideatore e regista di “Arti liberali”, un format presentato dal LAC Lugano Arte Cultura e dalla RSI inizialmente sul web e poi su La2, per ritrovare le “connessioni” fra mondi diversi
di Paolo Rossi Castelli

Teatro e Scienza possono rivelare delle affinità? All’apparenza sembrano mondi lontanissimi fra loro, ma provando a creare un “mix” con rispetto e coraggio nascono legami inaspettati, e interessanti. Lo dimostra "Arti liberali", un format presentato prima sul web, e poi in televisione, dal LAC (Lugano Arte e Cultura) e da La2 RSI (la terza puntata è andata in onda il 22 gennaio). Ne è ideatore e regista Carmelo Rifici, direttore artistico del LAC e uomo di teatro. 

Scienza e teatro: cos’hanno in comune?
«Da quando il teatro esiste - risponde Rifici - è sempre stato un luogo di conoscenza. Fin dai tempi dei greci (che hanno affiancato la dimensione drammaturgica, quella che è abituale oggi, alla dimensione rituale) il teatro ha avuto la necessità di strumenti di indagine per essere compreso e “attraversato”, per consentire al pubblico di leggere il mondo. Il teatro si è appropriato di tanti strumenti conoscitivi, tra cui la Scienza (quando era mistica e non si chiamava ancora Scienza...). Serviva come verifica di ipotesi».

Lei vuol dire che gli uomini di teatro si servivano di quello che adesso chiamiamo metodo scientifico?
«Per molti aspetti sì, soprattutto dal ‘600 in poi. Lo stesso Shakespeare adottava una sorta di metodo scientifico: si muoveva all’interno di ciò che osservava, cercava una chiave di lettura e poi verificava la sua interpretazione al contatto con il pubblico. Anche oggi lo spettacolo è la verifica di un’ipotesi, della verità. Se la “macchina teatrale” non funziona, è perché la verifica sul palcoscenico non è riuscita».

Può chiarire meglio?
«Il palcoscenico è una particolare lente di ingrandimento che offre possibilità infinite e allarga il mondo per lo spettatore, permettendo di vedere quello che a occhio nudo non si può osservare. È qualcosa che assomiglia a uno degli esempi raccontati da Fabiola Gianotti, direttrice generale del CERN di Ginevra, ospite del primo appuntamento di "Arti liberali". La Scienza, ha detto più o meno, mi ha dato un modo diverso di considerare la realtà. Quando mangio una bistecca, penso agli atomi da cui è composta, agli spazi fra un atomo e l’altro... E anche noi, aggiungo io, su un palcoscenico non guardiamo la realtà materiale, ma quello che c’è all’interno degli spazi vuoti fra parola e parola».

La Scienza ha influenzato il teatro?
«Sì, tantissimo. Non sarebbero state sviluppate certe drammaturgie senza la scoperta del cannocchiale e del microscopio. E anche nei tempi più recenti, molti autori e registi si sono ispirati ai modi nuovi di conoscere portati dalle scoperte scientifiche. Luca Ronconi, che è stato mio maestro, ha creato uno spettacolo importantissimo sul concetto di spazio-tempo, "Infinities", con testi che arrivavano da uno scienziato, il cosmologo John D. Barrow. E non dimentichiamo che una delle regie più significative di Giorgio Strehler è stata "Vita di Galileo", di Bertolt Brecht. Ma anche Anton Čechov era un uomo di scienza, un medico».

Nelle tre puntate di Arti liberali avete parlato molto di matematica...
«Sì, siamo affascinati, quasi ossessionati da quella parte della scienza (la matematica, appunto) che permette di sentirsi parte di qualcosa di molto più grande. La matematica è poi legata strettamente alla musica: quale è comparsa per prima? La musica è nata per raccontare l’inquietudine, non necessariamente la bellezza: musica e teatro aprono la porta a domande esistenziali importanti».

Una definizione di matematica?
«Posso rispondere ancora con le parole di Fabiola Gianotti: la matematica è il linguaggio della natura e della scienza, ma è anche un gioco intellettuale. È bella e affascinante, se viene spiegata in modo interessante e semplice».

Qui torniamo al tema delle Arti liberali, che nel Medioevo non “separavano” i diversi tipi di conoscenza. 
«Le Arti liberali erano le materie di studio degli uomini liberi, dell’aristocrazia e del clero, e si differenziavano dalle arti meccaniche, che servivano a insegnare un mestiere. Dante Alighieri era un letterato, ma anche un esperto di chimica, astronomia... Scienza, matematica, letteratura e arte erano intrecciate perfettamente: non tanto per dare risposte, ma per  porre delle domande». 

Come si può superare la frattura che invece esiste oggi fra le materie umanistiche e quelle scientifiche?
«La scuola ha un ruolo importante, e potrebbe fare molto, attenuando il netto divario fra le “lettere” e la matematica o la biologia, la fisica. È vero che, dovendo dare un ordine di competenze all’individuo, si tende a creare una divisione fra le discipline, e così le lettere e i numeri vengono separati fin dalla prima elementare, ma è un errore. Nelle accademie teatrali si tolgono queste distinzioni e si insegna da subito che il linguaggio parlato e quello simbolico sono in stretta relazione fra loro. Anche la Televisione, in verità, potrebbe fare molto, dato che numerosissime persone continuano a utilizzarla come fonte di conoscenza (come modo per dare un significato alla realtà). La televisione  mostra gli scienziati unicamente come persone che devono farci guarire dalle malattie. Tutto questo dovrebbe cambiare».

È pur vero che spesso gli scienziati parlano in modo troppo oscuro.
«Rendere semplici concetti molto complessi, senza semplificare, è un’operazione ardua. E la Scienza è attraversata in molti casi da problemi di questo tipo. Ma mi spingo a dire che a volte è giusto, forse, lasciare una certa oscurità, perché un linguaggio complesso, pur non arrivando a tutti, crea meno equivoci. Lo diceva anche Pier Paolo Pasolini, parlando del teatro: “Solo il teatro realmente complesso è un teatro realmente democratico”. È una frase a effetto, ma ha una sua verità. Ne ho avuto una prova quando ho messo in scena al Teatro Greco di Siracusa l’"Ippolito portatore di corone" di Euripide, nella traduzione di Edoardo Sanguineti. Era difficilissimo da recitare e da seguire, per il pubblico (così, almeno, pensavamo). Invece, è arrivato con grande forza agli spettatori, e lo spettacolo è diventato un campione di incassi. Il codice, evidentemente, era quello giusto, nonostante la complessità».

Sul lato opposto, alcuni scienziati trovano oscuri i letterati. Charles Darwin, per citare un genio, giudicava noiose le opere di Shakespeare (un altro genio...)
«Non si può dire che non lo siano... Per il pubblico, sono spesso un macigno. Shakespeare aveva una serie di ossessioni, soprattutto sul rapporto fra linguaggio e potere. Se non si estrae una lettura segreta all’interno dei suoi testi, possono diventare noiosi, appunto. Da un certo momento storico in poi (soprattutto, dopo la rivoluzione industriale), le vecchie trame shakespeariane hanno cominciato a non piacere più, e gli attori le tagliavano, le cambiavano... Sono servite due guerre mondiali e il ‘900 per ricondurci alla riscoperta di Shakespeare. Dopo la catastrofe dell’Olocausto è crollata l’idea piramidale del linguaggio (l’idea, autocratica, che il linguaggio fosse la verità). È caduta la fiducia nelle parole, e si è andati a cercare la verità al di là del linguaggio. Da lì è cominciata la ricerca sui significati profondi e segreti di Shakespeare. Anche Darwin avrebbe apprezzato...».

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