cultura e salute

Prescrizione sociale, lezione 4
Anita Jensen: l’arte
per allontanare la malattia


Lunedì 3 novembre 2025 ca. 5 min. di lettura
Anita Jensen
Anita Jensen
 

di Valeria Camia

Nei programmi di “arte su prescrizione”, ovvero attività artistiche su indicazione del medico, i benefici derivano principalmente dall’esperienza artistica in sé o dalla socialità che essa genera? E quali ostacoli ne limitano l’efficacia? Sono, questi, due dei temi “portanti” che verranno affrontati lunedì 3 novembre in occasione della quarta lezione del Corso universitario “Medici e Prescrizione Sociale”, promosso dalla Facoltà di Scienze Biomediche dell’Università della Svizzera italiana, con IBSA Foundation per la ricerca scientifica e la Divisione Cultura della Città di Lugano. L’ingresso è aperto a tutti, e gratuito. Relatrice principale dell’evento (alle ore 18, nell’Aula Polivalente del Campus Est di via La Santa 1 a Viganello) sarà Anita Jensen, professoressa associata, esperta di medicina sociale e politica sanitaria presso la Lund University Svezia), stratega per l’Arte e la Salute nella Regione di Skånee e professoressa associata alla Nord University (Norvegia).

Da oltre vent’anni Jensen studia come la partecipazione ad attività artistiche possa incidere sul benessere psicosociale e sulla salute pubblica, con risultati promettenti. Il suo percorso professionale è iniziato durante un tirocinio in un reparto psichiatrico ambulatoriale, dove aveva osservato che i pazienti, coinvolti in pratiche creative, trovavano nuovi canali di espressione e relazioni più autentiche. «In quel laboratorio d’arte - racconta Jensen - la malattia rimaneva “fuori dalla porta”. Si trattava di scoprire un modo per esprimersi, di incontrarsi come persone, non come pazienti». Da quell’esperienza è nata la convinzione che l’arte potesse rappresentare una “miniera d’oro” terapeutica, soprattutto se integrata nei percorsi sanitari attraverso il modello delle arti su prescrizione (arts on prescription).

Questo approccio, diffuso nel mondo anglosassone e sempre più studiato a livello internazionale, prevede che operatori sanitari prescrivano la partecipazione a programmi culturali - visite a musei, laboratori creativi, letture condivise, concerti o esperienze teatrali - come complemento o alternativa alle cure farmacologiche tradizionali. «È un modo per far dialogare il settore sanitario e quello culturale- spiega la professoressa Jensen. - I risultati mostrano miglioramenti significativi nel benessere, nella connessione sociale e nella riduzione di ansia e depressione. Molti partecipanti riscoprono un senso di identità e appartenenza, smettendo di definirsi solo attraverso la malattia». Le evidenze che emergono da una revisione sistematica di diverse ricerche confermano effetti positivi dopo corsi di 8-10 settimane.

Tuttavia, gli studi che valutano gli effetti a lungo termine sono ancora limitati, come ricorda Jensen: «Solo una ricerca ha valutato gli esiti fino a 12 mesi. I risultati restano promettenti, ma servono tempi più lunghi e specifici per comprendere meglio quali gruppi traggano maggior beneficio e come sia opportuno adattare gli interventi». Per questo, in Svezia crescono i programmi che prevedono un controllo sanitario “finale”: al termine del ciclo, cioè, i partecipanti tornano dal medico per valutare i progressi e pianificare i passi successivi. «È fondamentale creare percorsi di continuità - dice Jensen, - altrimenti il rischio è che l’effetto positivo svanisca quando l’attività finisce».

Altrettanto rilevante è sottolineare che integrare arte e salute nel sistema pubblico richiede anche una volontà politica, risorse economiche e nuove figure professionali, come i link workers - mediatori tra paziente, medico e organizzazioni culturali. Si tratta, precisa Jensen, di coordinatori (“piloti”) che partecipano alle attività garantendo sia la sicurezza sanitaria sia la qualità artistica. La loro presenza diretta nei programmi di arte su prescrizione è fondamentale per far sì che gli operatori artistici possano concentrarsi esclusivamente sul proprio ambito di competenza (la facilitazione dei processi creativi e relazionali) senza dover gestire aspetti clinici o di sicurezza. «La presenza di un referente con formazione sanitaria - aggiunge Jensen - rappresenta, insomma, un elemento di tutela, poiché assicura una gestione tempestiva e appropriata di eventuali problematiche che possono emergere all’interno del gruppo».

Alcune criticità, infatti, sono state messe in luce dagli studi finora realizzati e, ricorda Jensen, «come accade per i farmaci, è essenziale tenere conto anche dei possibili rischi legati a questo approccio». Effetti negativi includono situazioni di esclusione dal gruppo; altrettanto dannose sono attività eccessivamente complesse, che generano frustrazione o un senso di inadeguatezza, impedendo alle persone di partecipare pienamente ai programmi. Un altro problema segnalato riguarda la mancanza di continuità al termine del corso. Inoltre, fa notare la professoressa, molti operatori sanitari non sono ancora pienamente a conoscenza di tali programmi, e questo riduce le possibilità di orientare i pazienti verso un percorso che potrebbe rivelarsi molto utile. «Riconoscere questi limiti è fondamentale per migliorare la qualità e la sicurezza dei programmi - conclude Jensen - e per valorizzare il ruolo del gruppo come vero catalizzatore di benessere. Anche perché non sappiamo ancora se gli effetti positivi derivino più dall’arte in sé, oppure dall’esperienza sociale; probabilmente entrambe le componenti sono importanti. Ciò che conta, in ogni caso, è l’esperienza condivisa e il senso di appartenenza a una comunità».