Ecco il segnale che permette
alle cellule di individuare la propria "spazzatura" e di eliminarla

Sulla rivista Nature Cell Biology i risultati di uno studio dell’équipe IRB guidata da Maurizio Molinari. Lo smaltimento dei rifiuti cellulari (autofagia) è implicato nella longevità e nell’insorgenza di malattiedi Benedetta Bianco
Come la materie prime impiegate da una fabbrica generano sia prodotti utili che scarti, così ogni cellula del nostro corpo ricava energia e molecole indispensabili dai nutrienti, producendo però inevitabilmente anche rifiuti che devono essere smaltiti in qualche modo: se non avessero meccanismi efficientissimi per liberarsi di questi sottoprodotti, come molecole tossiche, proteine ripiegate male od organelli danneggiati, le cellule andrebbero rapidamente incontro alla loro fine e con loro l’intero organismo. I meccanismi adibiti a questo scopo sono diversi, ma il più importante in assoluto è l’“autofagia”. Come suggerisce il nome (dal greco “mangiare sé stessi”), questo meccanismo permette alla cellula di degradare il suo contenuto, ma in maniera selettiva: tramite l’autofagia, cioè, la cellula è in grado di isolare all’interno di una vescicola soltanto i componenti difettosi e di trasportarli fino ai lisosomi, i centri di riciclaggio cellulari.
Maurizio Molinari
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I processi alla base dell’autofagia sono talmente importanti da essersi conservati nel corso dell’Evoluzione dai più semplici organismi unicellulari, alle piante, all’uomo, e da essere valsi due premi Nobel: quello del 1974 al biochimico belga Christian de Duve, il primo a purificare e descrivere i lisosomi, e quello del 2016 al biologo giapponese Yoshinori Ohsumi, che ha caratterizzato i meccanismi che regolano l’autofagia in tutti gli organismi, studiandoli nei lieviti.
Un nuovo tassello di questo complesso “puzzle” biologico è stato ora aggiunto in Ticino, dall’Istituto di Ricerca in Biomedicina (IRB) affiliato all’Università della Svizzera italiana (USI), dove il gruppo guidato da Maurizio Molinari ha svelato il segnale che indica alle cellule la presenza di spazzatura da portare fuori. Lo studio, firmato anche da Mikhail Rudinskiy, Carmela Galli e Andrea Raimondi, è stato pubblicato lo scorso settembre sulla rivista scientifica Nature Cell Biology.
«La vita delle cellule del nostro corpo - spiega Molinari, che all’IRB dirige il laboratorio di Controllo di qualità della produzione proteica - dipende dal buon funzionamento di organelli che si trovano al loro interno, come i mitocondri (capaci di produrre energia), o il reticolo endoplasmatico, che produce componenti essenziali, tra cui proteine, lipidi e zuccheri. Con il tempo, gli organelli perdono la capacità di funzionare a dovere e le cellule devono sostituirli, o almeno rimuovere le parti che non funzionano più. Se la capacità di rinnovare gli organelli viene meno, la vita gradualmente si spegne».
Ciò che ha scoperto il gruppo di Molinari, grazie a un lavoro durato più di sette anni, è che quando un organello si deteriora o smette di funzionare correttamente, sulla sua membrana esterna compaiono delle proteine “disordinate”, che non hanno cioè una struttura ben definita: è questo il campanello d’allarme che dice alla cellula che è il momento di attivare l’autofagia e sostituire l’organello, o la porzione di esso non più funzionante.
«L’autofagia è un sistema che può essere attivato, ad esempio, in condizioni di digiuno - spiega Molinari. - In queste situazioni, per produrre l’energia necessaria a sopravvivere fino al momento in cui l’apporto di nutrienti verrà ristabilito, le nostre cellule iniziano a degradare il loro stesso contenuto. Quello che il nostro laboratorio ha caratterizzato è un sistema di autofagia più selettivo rispetto a quello attivato dalla mancanza di nutrienti, chiamato “organellofagia”: questo sistema – continua Molinari – viene attivato da problemi che le cellule avvertono quando organelli come i mitocondri o il reticolo endoplasmatico sono danneggiati».
Negli ultimi anni l’autofagia è stata oggetto di numerosissimi studi, che stanno man mano ampliando e completando il quadro: migliaia di articoli che riguardano questi processi sono stati pubblicati solo nell’ultimo anno. La ricerca scientifica è interessata all’argomento perché, oltre a costituire un meccanismo fondamentale per la salute cellulare, ha implicazioni importanti anche per la comprensione e il trattamento di numerose malattie, da quelle neurodegenerative come Alzheimer e Parkinson, al cancro, e perfino all’invecchiamento. Con l’età, infatti, l’efficienza del meccanismo di degradazione e riciclo diminuisce, portando all’accumulo di sostanze nocive e di danni cellulari. Riuscire, dunque, a mantenere in salute questo sistema, o a riattivarlo laddove necessario, potrebbe aprire la porta ad applicazioni terapeutiche molto interessanti.
«Questi processi di continuo riciclo degli organelli vengono meno a causa di malattie, dell’attacco di patogeni come virus e batteri, o a seguito dell’invecchiamento - dice Molinari. - L’aver capito che inviando delle proteine disordinate alla superficie dei nostri organelli riusciamo a regolarne l’integrità, la degradazione e la sostituzione, potrebbe tracciare la via per lo sviluppo di trattamenti che mirano a ringiovanire il contenuto cellulare, a rendere più funzionali i nostri organi, a prolungarne la vita. Oppure, si può ipotizzare l’intervento in malattie ereditarie e non, come alcune patologie neurodegenerative e numerose malattie rare causate dall’accumulo di proteine tossiche all’interno dei nostri organelli». E di malattie rare Molinari se ne intende, avendo partecipato attivamente al concepimento e alla creazione della Piattaforma Malattie Rare Svizzera Italiana e del Centro Malattie Rare della Svizzera Italiana.
Ci sono già diversi approcci che hanno dimostrato di poter stimolare l’autofagia: periodi di digiuno, come abbiamo già detto, restrizione calorica, attività fisica regolare, alcune sostanze contenute negli alimenti come i polifenoli. Ma, in questi casi, l’autofagia viene stimolata in maniera generalizzata, quindi degradando anche molecole e componenti ancora perfettamente funzionanti. L’obiettivo sarebbe, invece, quello di indirizzare l’autofagia in maniera estremamente specifica e selettiva, in modo da distruggere solo quello che davvero va sostituito. «Tali interventi - aggiunge Molinari - consisterebbero nel trapiantare questi piccoli moduli intrinsecamente disordinati sulla superficie dell’organello in questione, scatenando la degradazione selettiva delle parti che contengono le proteine tossiche».
Il ricercatore sottolinea, però, che le possibili applicazioni sono ancora lontane e che le ipotesi fatte andranno ulteriormente approfondite e validate, dal suo come da altri laboratori. In un mondo dove la popolazione invecchia sempre più, tale lavoro acquisisce una rilevanza sempre maggiore, nell’ottica, più che di allungare la durata della vita, di estendere gli anni vissuti in buona salute. Questo è, ad esempio, anche il cuore del progetto presentato da diversi enti di ricerca ticinesi, tra cui l’IRB, che puntano a ottenere un finanziamento dal Fondo Nazionale Svizzero, per creare nel Cantone un Centro Nazionale di Competenza in Ricerca (NCCR) sull’invecchiamento.