Così le associazioni dei pazienti "orientano" (in positivo)
i finanziamenti per la ricerca

Analisi senza reticenze del professor Michael Shen della Columbia University, esperto di cancro alla prostata e alla vescica, che è stato ospite a Bellinzona del ciclo di conferenze organizzate dallo IORdi Simone Pengue
I ricercatori e le ricercatrici dell’Istituto Oncologico di Ricerca (IOR) hanno frequentemente l’opportunità di ascoltare grandi scienziati, chiamati a condividere le proprie scoperte, nell’ambito del Programma di dottorato internazionale in biologia del cancro e oncologia. Personalità di spicco vengono invitate a Bellinzona per raccontare i risultati della loro attività e discutere con professori e giovani ricercatori. L’ultimo ospite di questo ciclo di conferenze di alto livello, in ordine temporale, è Michael Shen, professore di scienze mediche, genetica e sviluppo, biologia dei sistemi e urologia alla Columbia University di New York, negli Stati Uniti, intervenuto venerdì 23 maggio di fronte a una sala gremita. Il suo gruppo di ricerca è un riferimento internazionale nel settore del tumore alla prostata e di quello alla vescica. In particolare, i suoi studi si concentrano sull’evoluzione dei tessuti dell’organismo umano e sui processi che, a causa di moltissimi fattori, possono andare fuori controllo e dare origine ai tumori. Il nome del professor Shen è legato, in particolare, all’individuazione dell’origine cellulare e genetica del tumore nell’epitelio luminale della prostata, ovvero lo strato interno del tessuto che compone questa ghiandola maschile.
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Come mai trent’anni fa ha iniziato a fare ricerca sul tumore alla prostata?
«Quando abbiamo iniziato a lavorare su questa patologia - risponde Shen - era un campo ancora tutto da esplorare. C’erano tantissime domande aperte e pochissimi ricercatori che ci stavano lavorando. Ora invece è un settore molto competitivo, con tantissimi gruppi di ricerca coinvolti. Ma all’inizio non era così».
Come è nato l’interesse per il cancro alla vescica, invece?
«Il tumore alla vescica, oggi, è un po’ come era quello alla prostata vent’anni fa: è una malattia ancora poco studiata, con grandi domande ancora senza risposta, e pochi che ci lavorano davvero. E questo, per me, è proprio ciò che lo rende interessante. Come scienziato, preferisco concentrarmi su aree che sono ancora poco studiate».
Professore, nel suo intervento allo IOR ha detto che il tumore alla vescica è il sesto più frequente nella popolazione, ma nonostante questo la ricerca per combatterlo non è finanziata a sufficienza. Perché?
«Negli Stati Uniti, gran parte dei finanziamenti per la ricerca sulle malattie arriva grazie alla pressione delle associazioni di pazienti. Funziona più o meno così: ci sono gruppi molto attivi che si battono per ottenere fondi per alcune malattie, come l’Alzheimer o le malattie cardiache. E poi ce ne sono altre che restano un po’ nell’ombra, semplicemente perché non hanno nessuno che faccia davvero sentire la sua voce».
Ad esempio?
«Prendiamo il caso del cancro al seno. Per lungo tempo è stato poco finanziato. Ma circa 25 anni fa le cose sono cambiate: le associazioni che si occupavano di questa malattia hanno fatto pressione sul Congresso americano, chiedendo che ci fossero soldi destinati esclusivamente alla ricerca sul tumore al seno. E ce l’hanno fatta. Hanno ottenuto un fondo specifico, e da lì è nato il programma di ricerca medica del Dipartimento della Difesa. Qualche anno dopo, un’azione simile è stata fatta anche per il cancro alla prostata».
Che cosa ha fatto cambiare la situazione?
«In gran parte, le celebrità. C’è stato un periodo in cui anche solo parlare di cancro al seno era un tabù. Le donne provavano vergogna, soprattutto se avevano dovuto affrontare un intervento come la mastectomia. Poi, alcune donne famose hanno cominciato a raccontare pubblicamente la loro esperienza, dicendo: “Ho il cancro al seno, ed è giusto parlarne”. Quello è stato un momento di svolta.
La stessa cosa è successa con il cancro alla prostata. Anche in questo caso, fino a un certo punto era un argomento evitato. Gli uomini non ne parlavano, perché una delle terapie più comuni, la deprivazione degli ormoni maschili, veniva vissuta come una perdita di virilità. Verso la fine degli anni ’90 è successo qualcosa di importante: Norman Schwarzkopf, un generale molto conosciuto negli Stati Uniti, simbolo di forza e virilità (aveva guidato le truppe nella Guerra del Golfo), ha raccontato pubblicamente di avere il cancro alla prostata. E da lì, è cambiato tutto. Parlare di questa malattia è diventato più accettabile.
Poi c’è anche l’aspetto economico. A volte non basta solo fare pressione: servono anche soldi. Per esempio, la Prostate Cancer Foundation (una grossa fondazione statunitense dedicata a finanziare la ricerca contro il tumore alla prostata, ndr) è stata fondata da Michael Milken, un miliardario che ha avuto il cancro prostatico. Grazie a lui e alla sua fondazione, sono stati investiti milioni nella ricerca, e questo ha portato a grandi progressi nelle cure».
E perché il cancro alla vescica resta ancora così poco finanziato?
«Non ha una grande rete di sostegno da parte dei pazienti. Riesci a pensare a una celebrità che ne abbia parlato? Probabilmente no. Eppure, è una malattia abbastanza comune. Quindi qualcuno famoso l’avrà sicuramente avuta, ma nessuno ne parla. È ancora vista come una cosa da tenere riservata. Esiste un’organizzazione, la Bladder Cancer Advocacy Network, che cerca di raccogliere fondi, ma è relativamente piccola e ha risorse limitate.
Quindi, senza gruppi lobbistici forti e ben organizzati, certe malattie restano poco finanziate. Non solo in America, ma probabilmente in tutto il mondo. È davvero interessante, e un po’ inquietante, vedere quanto possano contare la percezione pubblica e la voce delle celebrità nel determinare dove vanno a finire i soldi della ricerca».
Quindi, almeno in parte, è una questione più politica che scientifica. Richard Nixon aveva dichiarato una vera e propria “guerra al cancro” negli anni Settanta e anche Joe Biden, prima di lasciare la Casa Bianca, si era distinto per il suo supporto finanziario alla ricerca, tanto che ha lanciato slogan come “terminare il cancro come lo conosciamo” (in inglese “ending cancer as we know it”). L’attuale amministrazione di Donald Trump, invece, ha annunciato pesanti tagli al settore. Il suo laboratorio e la ricerca alla prestigiosa Columbia University stanno subendo delle conseguenze?
«Direi che, per ora, il mio laboratorio non è stato colpito in modo diretto e grave. Anche se molti miei colleghi lo sono stati, perché i loro finanziamenti sono stati tagliati. Ma se le politiche attuali continueranno, prima o poi toccherà anche a noi. Sembra che alla Columbia University non verranno più finanziati nuovi progetti, a meno che qualcosa non cambi. E questo ovviamente ha un impatto diretto sulla nostra ricerca. Ho due progetti che dovrebbero ricevere i fondi il mese prossimo, ma potrebbe non accadere, sempre che la situazione non si sblocchi.
Quindi sì, la ricerca alla Columbia rischia di essere seriamente compromessa: i laboratori finiranno i soldi e questo avrà conseguenze importanti».
Di che tipi di tagli stiamo parlando?
«Tutta la ricerca negli Stati Uniti sarà toccata dalle politiche previste nell’attuale proposta di bilancio. Naturalmente deve ancora essere approvata, ma al momento prevede un taglio di circa il 40% al budget dei National Institutes of Health (NIH, il maggior organo statunitense di finanziamento alla ricerca biomedica, ndr), oltre a una modifica pesante del cosiddetto tasso di costo indiretto (fondi aggiuntivi per le spese fisse, ndr)».
Lei è preoccupato per il futuro del suo laboratorio?
«Siamo sicuramente preoccupati per quello che potrà succedere. In questo momento stiamo vivendo un periodo di grande incertezza. Non conosciamo ancora i dettagli di ciò che accadrà, ma sì, c’è molta preoccupazione. E, in generale, si tratta di una vera e propria minaccia per la ricerca biomedica, non solo negli Stati Uniti, ma a livello globale. Questo perché la scienza, oggi, si basa moltissimo sulla collaborazione internazionale. Se i finanziamenti negli Stati Uniti diminuiscono, questo avrà un impatto pesante su quelle collaborazioni, e di conseguenza danneggerà la ricerca scientifica in tutto il mondo».
Come è possibile che in un Paese democratico dall’economia così avanzata succeda una cosa del genere?
«L’amministrazione Trump può attaccare la ricerca, compresa quella sul cancro, perché la gente non lo sa. I modi per finanziare la scienza sono argomenti che vengono semplicemente ignorati. Ecco perché penso che una società in cui le persone sanno che la ricerca esiste, e sono abbastanza istruite da capirne il valore, sia una società che sarà inevitabilmente più sana».