formazione

Curare al meglio?
Non bastano soltanto
le competenze tecniche

Venerdì 10 marzo 2023 circa 8 minuti di lettura In deutscher Sprache
Guenda Bernegger, docente-ricercatrice presso il Dipartimento economia aziendale, sanità e sociale della Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana (foto SUPSI)
Guenda Bernegger, docente-ricercatrice presso il Dipartimento economia aziendale, sanità e sociale della Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana (foto SUPSI)

Al via il 29 marzo un corso della SUPSI (Certificate of Advanced Studies) sulle "medical humanities" destinato a medici, infermieri e agli altri operatori della sanità. Intervista alla coordinatrice, Guenda Bernegger
di Monica Piccini

In che modo il dialogo con le arti può arricchire le competenze dei curanti? Qual è il momento giusto, non solo per iniziare una cura, ma anche per interromperla? Quanto conta nell’esperienza di malattia l’atmosfera di fiducia che si crea tra medico e paziente? Sono alcune delle domande a cui possono contribuire le Medical Humanities, un campo interdisciplinare nato negli anni ’60 negli Stati Uniti, ma tuttora “di nicchia” al di qua dell’oceano, che unisce scienze biomediche, scienze umane (tra cui filosofia, letteratura, psicologia) e arti, valorizzando l’apporto di queste ultime alla comprensione delle esperienze di pazienti e medici, alla comunicazione e alla riflessione critica sulle pratiche sanitarie. L’inizio, il prossimo 29 marzo, del corso “Medical Humanities, etica clinica e medicina narrativa", organizzato dalla Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana (SUPSI), è l’occasione per parlare dell’argomento con la sua responsabile, Guenda Bernegger, docente-ricercatrice presso il Dipartimento economia aziendale, sanità e sociale.

Perché siamo così indietro con l’insegnamento delle Medical Humanities?

«La forte specializzazione della medicina - dice Bernegger - ha portato ad allontanarsi molto dalle figure di medici umanisti, filosofi e scrittori, quali invece abbiamo avuto nel passato. Pensiamo a modelli come Čhecov, che univano la vocazione medica all’arte della scrittura. Oggi, nella formazione di base in medicina, il tempo per approfondire le scienze umane è limitato. I medici non hanno nemmeno il tempo per leggerli, i romanzi: figuriamoci per scriverli! Certo, esistono eccezioni. Il corso che propone ora la SUPSI è non a caso una postformazione (si tratta di un CAS, cioè di un Certificate of Advanced Studies, della durata di un anno), che offre un approfondimento umanistico a chi già ha acquisito conoscenze ed esperienza sul piano clinico: è l’erede di un master nato all’inizio degli anni 2000 con l’Università dell’Insubria e la Fondazione Sasso Corbaro, la quale ha dato avvio alla riflessione e alla divulgazione su questi argomenti, in Ticino». 

Ce n’è davvero bisogno!

«Sì, abbiamo bisogno di questo sguardo interdisciplinare, e anche intersoggettivo, se è vero che, parafrasando l’antropologo Marc Augé, la malattia è sempre un evento troppo grande per poter essere affrontata da un singolo individuo ed essere presa in carico dalla sola scienza medica».

Qual è la finalità del corso in Medical Humanities da lei coordinato?

«La formazione, rivolta a professionisti diplomati dell’ambito sanitario e sociale (infermieri, fisioterapisti, psicologi, medici, educatori e altri), da una parte mira a fornire agli operatori strumenti per una cura più attenta alla singolarità dell’individuo, rafforzando per esempio la qualità dell’ascolto e la valorizzazione delle prospettive altrui; dall’altra - e questo è il suo grande obiettivo - intende nutrire i professionisti di uno sguardo e una profondità umanistica, che conferisca al loro lavoro pienezza e, di conseguenza, una maggiore soddisfazione, compensando così la grande fatica a cui sono esposti, che facilmente li porta al rischio di burn out».

Com’è strutturato il CAS?

«È diviso in dodici moduli di due giorni, per un totale di 24 giornate, nell’arco di 14 mesi. Tutti i moduli hanno la stessa struttura, composta da cinque momenti, caratterizzati da approcci disciplinari diversi: fenomenologia, clinica, arte, etica clinica e medicina narrativa. In questi ambiti vengono declinati di volta in volta i singoli argomenti: la durata, l’anticipazione e l’attesa, il tempo ciclico, il tempo giusto, le atmosfere, l’intimità, il corpo nello spazio, lo spazio istituzionale, la parola, la poesia, la storia, la narrazione... Lezioni teoriche si alternano a momenti seminariali; le riflessioni cliniche si espongono al confronto con sguardi diversi, artistici, letterari; registro analitico e registro narrativo, sapere scientifico ed esperienziale trovano tutti spazio e legittimità. I relatori, nazionali e internazionali, saranno numerosi, dai rappresentanti delle discipline della cura a quelli del mondo della cultura (fra questi, Paolo Cattorini, Adriana Cavarero, Valentina Di Bernardo, Gilberto Di Petta, Fabio Pusterla, Andrea Raballo)».

All’interno di questa struttura, i tre grandi temi affrontati in maniera interdisciplinare sono la temporalità, la spazialità e il linguaggio. In che modo riguardano il percorso di cura?

«Le dimensioni del tempo, dello spazio e del linguaggio rivestono un ruolo centrale nell’esperienza di malattia e nel percorso terapeutico. Comportano aspetti delicati che, se trascurati, possono generare sofferenza, di cui come professionisti è dunque necessario essere consapevoli e tenere conto.
Parlando di temporalità, pensiamo per esempio al vissuto dell’attesa dei parenti di chi è ricoverato in terapia intensiva. Le operatrici e gli operatori sanitari fanno fatica anche solo a rappresentarsi la sala d’attesa, perché l’esperienza di chi è nell’azione non è la stessa di chi è fermo ad aspettare.
O pensiamo all’impatto dell’anticipazione, che la medicina predittiva comporta. Oggi la genetica permette di conoscere in anticipo il rischio di sviluppare in futuro una malattia, senza necessariamente fornire gli strumenti per prevenirla, né curarla. L’anticipazione è una forma temporale che bisogna “maneggiare con cura”: al momento in cui io so che qualcosa potrebbe accadere, perché il sapere scientifico l’ha predetto, quell’informazione condiziona la mia vita». 

E che ne è della spazialità?

«La spazialità riguarda il corpo del paziente, la sfera dell’intimità, l’ambiente, dalla dimensione domestica a quella istituzionale… Prendiamo ad esempio l’atmosfera in ospedale. Consideriamo le luci fredde, che annullano la soggettività del malato: sotto quelle luci siamo tutti dei corpi, non più degli individui. Forse non è possibile cambiare l’illuminazione, ma è importante essere consapevoli di come questa porti a vedere i soggetti “in una certa luce”, in senso materiale e figurato. O spostiamo invece lo sguardo verso l’atmosfera delle case in cui intervengono le operatrici e gli operatori che curano a domicilio: la difficoltà è di tutt’altro ordine. Lo spazio è qui denso di soggettività, parla degli individui che lo abitano, forse ben più di quanto questi vorrebbero, costretti a mostrare aspetti della propria intimità che verosimilmente preferirebbero tenere riservati. Proprio per questo occorre portare particolare attenzione e rispetto».

E infine il linguaggio.

«Il linguaggio ricopre un ruolo cruciale nella relazione di cura. Tanto cruciale quanto difficile è, tuttavia, trovare le “parole giuste” per dire qualcosa che il malato vorrebbe non dovere udire. Il linguaggio giusto è necessario per comunicare la diagnosi e far prendere al paziente una decisione consapevole rispetto alle opzioni terapeutiche, grazie a un’informazione sufficiente e comprensibile, che tenga conto del suo mondo, delle sue rappresentazioni della situazione attuale e a venire. Se è vero che tutte e tutti parliamo sempre, la consapevolezza del potere e dei potenziali danni del linguaggio non è scontata. Per questo, il corso prevede una sezione dedicata proprio alla medicina narrativa: un laboratorio per aiutare i curanti ad affinare la propria capacità di ascoltare, accogliere e rispondere alle storie dei pazienti. Una competenza non scontata, perché spesso siamo interlocutori distratti, che non si occupano di capire davvero il significato e il peso che l’altro dà alle sue parole, il valore delle immagini usa. L’idea che sta alla base della medicina narrativa è che, grazie a un ripetuto esercizio di lettura attenta, in gruppo, di un testo - un racconto o una poesia o anche un dipinto, - ci si alleni ad ascoltare meglio qualsiasi testo, compresa la storia del paziente. Per le professioniste e i professionisti della cura è fondamentale sperimentare questa postura, che conferisce profondità all’ascolto e rende aperti alla pluralità delle letture».

In che modo l’arte aiuta nell’approccio a una cura più “umana”?

«Le scienze umane e le arti, al centro delle Medical Humanities, possono insegnarci qualcosa di profondo in merito all’essere umano. Il confronto con esse permette, infatti, di sviluppare in chi cura una sensibilità complementare alla competenza tecnica e clinica, conferendo alle azioni e alle scelte uno spessore maggiore. Ad esempio, per riflettere sul concetto di “momento giusto” per interrompere le cure, può essere stimolante il confronto con un pittore, che riveli quello che lo porta a fermarsi al momento opportuno, cioè prima di tracciare un segno che risulterebbe di troppo. Analogamente, il dialogo con un poeta, che alla “parola giusta” dedica un’attenzione estrema, può favorire anche in chi cura il senso di responsabilità nei confronti del linguaggio, del “come” e non solo di “cosa” dice.
Forse non si tratta tanto di rendere la cura più “umana”, quanto di riconoscere come la cura sia proprio tra i gesti che maggiormente onorano la nostra umanità, a condizione di dare a questo termine un senso pieno».

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Maggiori informazioni sul Certificate of Advanced Studies SUPSI in “Medical Humanities, etica clinica e medicina narrativa”, che ha ancora alcuni posti disponibili, possono essere trovate all’indirizzo https://fc-catalogo.supsi.ch/Course/Details/1000003780